Ormai da un mese il doppio bollettino quotidiano di Azienda Zero riporta un solo caso di perdurante positività a Vo', la località-simbolo dell'emergenza...
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Partiamo dal famoso 21 febbraio: se lo ricorda?
«Altroché. Era un venerdì, dopo il lavoro sono andato alla locanda Al sole, dove avevo l'abitudine di trovarmi con gli amici per il caffè. Appena arrivati fuori dal bar, abbiamo visto le telecamere: Che roba xea?, ci siamo chiesti. Poco dopo mi ha telefonato mia moglie: Vieni a casa, vieni a casa!. Le ho domandato cosa fosse successo. Ma lei: Vieni a casa, vieni a casa!. Allora mi sono preoccupato e sono tornato subito indietro. Solo a quel punto ho saputo che a Vo' era arrivato questo Coronavirus, che c'era un morto, che un secondo malato era grave...».
Adriano Trevisan e Renato Turetta: li conosceva entrambi?
«Ma certo, eravamo sempre insieme: un bicchiere, una partita a carte, chi è che allora poteva immaginare che fossero un problema? Solo dopo abbiamo capito che probabilmente il virus è arrivato nella locanda portato da gente che arrivava a dormire da fuori. Adriano e Renato sono stati i primi due a contagiarsi e senza saperlo hanno trasmesso l'infezione anche a me e agli altri, e noi a nostra volta al resto del paese, come una catena».
Si è spaventato subito?
«Lì per lì non tanto. Non avevo nessun sintomo, aspettavo ancora il tampone. Quando me l'hanno fatto, alla domenica pomeriggio, sono risultato immediatamente positivo. Ma c'è voluta un'altra settimana prima di avere la febbre: quattro o cinque giorni a 37,5, altri due a 38,5. Poi è passata anche quella, mi è rimasto un po' di malessere, ma i polmoni erano a posto. Solo che poi ho cominciato a rimettere, un giorno e mezzo così, allora sì che me la sono fatta addosso...».
Perché?
«La sera prima che cominciasse tutto, il giovedì, avevo sentito Adriano al telefono, perché sapevo che stava poco bene: Come che a xe?. E lui: Ho sempre vomito e no son ben. Così me ne sono ricordato e ho avuto paura. Poi però è passato anche quello per fortuna. Il problema è che ero sempre positivo ai tamponi che mi facevano».
Quanti?
«Tredici. Positivo, positivo, positivo... A un certo punto negativo a uno, ma poi di nuovo positivo all'altro. Perfino un nulla è venuto fuori a un dato momento: mi hanno spiegato che forse non ero più positivo, ma non ero ancora neanche negativo. Tutti i miei compaesani contagiati intanto guarivano e uscivano, ma io no, sempre chiuso in casa. Chiedevo ai dottori: Ma come mai?. Però neanche loro sapevano dirmi il motivo: Positivo asintomatico, e basta. Ci tengo comunque a dire che mi sono sempre stati molto vicini, mi telefonavano anche tre volte al giorno per sapere come stavo».
E i suoi familiari, intanto?
«I miei due figli, mio fratello che vive porta con porta e mia mamma di 93 anni per fortuna non hanno avuto niente. Mia moglie invece si è ammalata ed è finita addirittura in ospedale, 18 giorni al Covid Hospital di Schiavonia. Ma anche lei poi è stata dimessa, mentre io restavo sempre positivo».
Quando è finito l'incubo?
«Il 4 maggio, quando mi è arrivata la carta che diceva che finalmente mi ero negativizzato, dopo due tamponi consecutivi».
Quindi ora basta mascherina?
«Eh no ciò! Se sono da solo in mezzo ai campi, magari la tolgo. Ma per andare in paese, la metto eccome, obbligo o non obbligo, perché la paura è stata troppo grande. Spero solo che con il caldo questo Coronavirus muoia per la strada...». Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino