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VICENZA - Sincero fino a far male. Trasparente, lucido, nevrotico, profondamente disturbante. E splendidamente feroce. Difficile condensare in poche parole la vita dello scrittore vicentino Vitaliano Trevisan, 61 anni compiuti da poco, trovato morto ieri pomeriggio nella sua abitazione di Campodalbero di Crespadoro. Forse un mix letale di farmaci, forse suicidio, le cause non sono chiare. Autore molto amato dalla critica, attore per cinema e tv, drammaturgo e anche regista, negli ultimi anni si divideva tra la sua casa vicentina e una nuova vita nelle campagne della provincia di Pisa. A fine ottobre era stato dimesso dal reparto di Psichiatria dell'ospedale di Montecchio Maggiore, esperienza poi raccontata senza sconti su Repubblica.
LA STORIA
Vitaliano non era un'anima facile. Ermetico, ruvido fino alla scortesia, eppure brillante, acuto e anche estremamente ironico e divertente, capace di guizzi di dolcezza, sapeva spiazzare chiunque grazie ad uno sguardo così tagliente da togliere il fiato. «Me ne vado - scriveva nel celebre Quindicimila passi (Einaudi, 2002) che lo fece conoscere - lascio per sempre alle mie spalle tutto questo schifo cattolico democratico artigiano industriale. Lascio per sempre questo disgustoso buco di provincia, pieno solo di persone ottuse pericolose e pericolosamente malvagie». La scrittura, per lui, era sofferenza. Senza riti: «Sono pigrissimo - confidava quando era in vena di chiacchiere -. La mia capacità di concentrazione è forte, ma per periodi non lunghi. Per cui anche la scrittura si spezzetta. E a volte è sofferenza». Alla scrittura ci è arrivato tardi, come racconta nell'autobiografico Works (2006): prima una lunga serie di lavori, dal portiere di notte al manovale e gelataio, poi i primi racconti (Un mondo meraviglioso nel 1997 e Trio senza pianoforte/oscillazioni nel 1998), quindi il potente I quindicimila passi che gli porta il Premio Lo Straniero e il Campiello Francia 2008.
LAVORARE CON LUI
Lavorare con lui, in effetti, non era facile, «è un problema dei registi, mica mio» diceva. «Se mi cercano come consulente o collaboratore», sentenziava serafico, «i registi devono pure imparare ad accettare il mio punto di vista». Che non necessariamente si sposava col loro sguardo. Con Il lavoro rende liberi tratto dai racconti Scandisc e Defrag, si sono guastati i rapporti con Toni Servillo, in barba ai buoni risultati poi ottenuti dallo spettacolo. «Poteva andare meglio», raccontò, come forse poteva «andar meglio» con lo stesso Malosti, con Garrone e anche con Serena Sinigaglia, che aveva lavorato su Oscillazioni, senza però soddisfare pienamente lo scrittore.
I RICORDI
Capace di leggere il malessere di oggi con oggettività, rappresentando vette e abissi di un Veneto sempre più contraddittorio e oscuro, Trevisan sapeva tradurre le sue visioni con graffi feroci, sulla pagina e a teatro. Il recente Il delirio del particolare portato sul palco da Maria Paiato per la regia di Sangati, è un'acuta riflessione sulla morte, sul tempo e sulla bellezza dedicata alla figura di Carlo Scarpa. «Una perdita artistica enorme» osserva la curatrice di progetti teatrali Cristina Palumbo che a lungo ha lavorato con lui - sperimentava anche a costo di pagarne lo scotto in prima persona». «Un binocolo sul nostro mondo» fa eco Franco Oss Noser, presidente di Agis Trivento, «il Veneto dovrebbe rendersi conto del patrimonio artistico che ha al suo interno». «Con lui amavo camminare molto - ricorda l'attore Mirko Artuso, che con Vitaliano condivise una scena divertente in Effetto domino - avevo questo privilegio, ero l'unico che riusciva a portarlo a parlare in pubblico. E pur nelle difficoltà, sapeva essere generoso. Questa sua schiettezza, quasi crudele, era la sua bellezza». «Dal suo angolo vedeva contorni che non tutti comprendevano - chiude Gian Mario Villalta, direttore artistico di PordenoneLegge - a volte si incamminava lungo crinali che facevano paura».
Il Gazzettino