«A scuola mi chiamavano lebbroso. Mi sono barricato in camera mia. Vivo chiuso in casa da 7 anni, l’unico luogo in cui mi sento al sicuro». Trevigiano, 23 anni,...
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LA CURA
I rapporti con la madre, con cui Marco vive a Treviso insieme alla sorella, si sono modificati nel tempo. «Ha scoperto l’associazione Hikikomori, ha realizzato che ci sono diversi ragazzi italiani che soffrono di questo disturbo e abbiamo iniziato a comunicare di nuovo. Con mia sorella il rapporto è più difficile. Ha 16 anni non capisce queste dinamiche, forse si vergogna di me. E non mi sento di biasimarla». Un ingrediente fondamentale di questa assenza di prospettive è la depressione. «Ne soffro purtroppo, e la tentazione di aggrapparmi al cibo è sempre forte». Marco è un ragazzo molto intelligente, ha sviluppato una capacità di introspezione notevole, tratto-questo-tipico degli Hikikomori. «Non sono credente, ritengo che la scuola per come l’ho vissuta io mi abbia isolato. Ho cercato di compensare con l’autoinformazione. Ma mi rendo conto di vivere senza scopi». Le pressioni lo hanno messo in difficoltà anche con le ragazze. «Mi chiamavano zombie lebbroso e questa cosa mi ha bloccato. Nel gaming non ho alcuna difficoltà ad interagire con l’altro sesso, ma ho paura del contatto fisico». Negli ultimi due anni la situazione del ragazzo trevigiano sta lentamente cambiando. «Grazie al web, che è la mia porta sulla realtà, mi sono avvicinato al mondo del gaming. Sono allenatore di un team di 6 persone di Overwatch, un videogioco sviluppato da Blizzard. Non è un vero e proprio lavoro, ma guadagno qualcosa». Marco ha accettato di raccontare la sua storia per parlare ai ragazzi che condividono il suo stesso problema. «La gente non ci capisce, noi continuiamo a sentirci inutili e mai all’altezza dei nostri coetanei. Ma l’Hikikomori è un’autodifesa». Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino