Montebelluna. Aldo Serena racchiude la sua carriera in un libro "I miei colpi in testa"

L'intervista al campione durante la presentazione della sua autobiografia alla libreria Lovat di Treviso

Aldo Serena ha presentato il suo libro alla libreria Lovat di Treviso
MONTEBELLUNA (TREVISO) - A completare una carriera a tutto tondo nel mondo del calcio, prima da grande attaccante e poi da apprezzato commentatore televisivo, mancava solamente...

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MONTEBELLUNA (TREVISO) - A completare una carriera a tutto tondo nel mondo del calcio, prima da grande attaccante e poi da apprezzato commentatore televisivo, mancava solamente l'esperienza della scrittura. La lacuna, si fa per dire, Aldo Serena l'ha appena colmata dando alle stampe il libro autobiografico I miei colpi di testa Le scelte, i derby e gli scudetti di un centravanti con la valigia (con Franco Vanni, edizioni Baldini & Castoldi).


La storia di un ragazzo che, partito dalla natia Montebelluna per approdare all'Inter, lo vide indossare tra le altre tutte e quattro le maglie delle squadre di Milano e Torino. Un palmarès invidiabile il suo, con scudetti conquistati con le tre casacche nerazzurra, juventina e rossonera, una Coppa Intercontinentale, una Uefa, un titolo di capocannoniere di serie A. Senza dimenticare l'epopea con la Nazionale alle Olimpiadi di Los Angeles 1984 e quella sfortunata ai mondiali di Italia 90. Poi la seconda parte, altrettanto importante del suo percorso, con le reti Mediaset per le quali ha commentato centinaia di partite di calcio in tutto il mondo. Ora, terminato anche questo impegno, il ritorno definitivo a Mercato Vecchio, la frazione di Montebelluna da dove partì con la valigia, per seguire da vicino le sue attività nel settore immobiliare.
Aldo Serena, quando è nata l'idea di scrivere un libro?
«Devo dire che già in passato me l'avevano chiesto da più parti, ma non avevo trovato le motivazioni giuste per farlo. Poi sono stato contattato da Baldini & Castoldi. Avevano visto i tweet che ogni tanto pubblico e mi hanno proposto di farlo. È scattato il campanello della vanità, però non ne ero sicuro. Alla fine ho accettato, anche perché il ricavato delle vendite andrà in beneficenza all'Istituto Tumori di Milano».
Come mai questa scelta?
«Quella città mi ha accolto per trent'anni dandomi molto e facendomi crescere come uomo, non l'avevo ancora ringraziata a dovere. Questa è la forma che ho scelto per farlo».
Nel libro si è definito un ragazzo di provincia catapultato in una vita soltanto immaginata.
«Io sono partito da Montebelluna a 18 anni con sincero stupore ed incanto per ciò che stava accadendo. Forse erano altri anni, ero davvero meravigliato, anche perchè il traguardo primario non era quello di fare soldi. Adesso mi capita di andare in giro per i campi della zona a vedere partite di calcio giovanile ed assistere ad atteggiamenti che non condivido. Soprattutto tra i genitori, urlano contro tutti nel tentativo di difendere e far prevalere i figli con ogni mezzo. Hanno il desiderio che arrivino al successo e al denaro. So di ragazzi che a 14-15 anni hanno mollato proprio per il comportamento degli adulti. Ma il calcio è sempre uno sport ed un gioco e i rapporti tra le persone sono gli stessi».
Per lei che cosa ha rappresentato invece la famiglia di origine?
«La mia infanzia è stata piena di impegni, oltre alla scuola e al calcio non avevo un attimo libero dovendo dare una mano nella piccola attività di mio padre. Non nego che mi siano state imposte delle regole, ma quando è arrivato il momento di decidere di andare avanti con il calcio sono stato libero di scegliere. Anche di sbagliare. Mio padre non ha mai voluto saperne nulla dei contratti che firmavo. Così sono cresciuto. Per questo mi auguro che il libro possa dare uno spunto per ragionare».
Il titolo richiama la specialità della casa. Ma può essere letto anche in altra maniera.
«Abbiamo voluto giocare sull'ambiguità perché è vero che, dentro e fuori dal campo, qualche colpo di testa metaforico l'ho fatto anch'io. Ricordo per esempio quanto successe durante un Udinese-Torino. Io avevo segnato ed ero in uno stato di esaltazione, mentre il mio compagno d'attacco Walter Schachner era in difficoltà, sbagliava ogni palla. Gli urlai di tutto, poi ad un certo punto si avvicinò Zico, che era nostro avversario. Mi disse che comportandomi così avrei peggiorato la situazione mandandolo ancora di più in crisi. Fu una grande lezione di vita. Molti anni dopo lo incontrai di nuovo allo stadio Bernabeu, io da telecronista Mediaset e lui di una rete brasiliana. Gli rammentai l'episodio ma se l'era scordato. Probabilmente lo faceva così spesso che per lui era pura normalità».
Tra i tanti di una lunghissima carriera qual è l'esperienza alla quale è rimasto maggiormente legato?
«Se potessi tornare indietro vorrei rivivere le emozioni provate alle Olimpiadi di Los Angeles 1984. Come ho scritto nel libro l'atmosfera che si respirava al villaggio degli atleti è stato qualcosa di fantastico, lo spirito olimpico io l'ho proprio sentito. Era bello familiarizzare con i ragazzi delle altre nazioni. Si andava in mensa e ci si trovava tutti quanti. Io, da grande appassionato di basket, ho conosciuto e fatto amicizia con i nazionali spagnoli Corbalan e Martin. Poi abbiamo potuto visitare San Francisco ed altri posti. Ricordi davvero unici».
Il momento più buio è invece il rigore sbagliato nella semifinale Italia-Argentina dei Mondiali del '90.
«Il libro si apre proprio con quell'episodio, il più brutto, doloroso e sofferente della mia carriera. L'ho messo all'inizio del racconto quasi per esorcizzarlo una volta per tutte. Ognuno di noi giocatori era stanchissimo, io non ero tra i primi cinque rigoristi designati, così quando il citì Vicini mi chiese se me la sentivo lo invitai a rifare il giro dei compagni. Ma poco dopo si ripresentò. A quel punto non potevo rifiutare e cercai conforto nel training autogeno».
Per chi non se lo ricorda lei andò sul dischetto quasi trascinandosi sul campo.
«Avevo le orecchie tappate e facevo fatica a camminare. Credo di aver avuto un attacco di panico. Sbagliai e di quello che successe dopo, l'abbraccio di Baggio e tutto il resto, non ricordo proprio più nulla. Si può dire che mi risvegliai il giorno della finale per il terzo posto che giocammo e vincemmo a Bari».
Nel libro traspare in ogni pagina la sua autentica e genuina passione per il calcio.
«Secondo me quella è la molla giusta per fare le cose. In tutti i settori della vita. Nello sport che ho avuto la fortuna di praticare da professionista per tanti anni non ci si deve lasciar prendere dalle sovrastrutture, come l'essere famosi o altri aspetti appariscenti. Il percorso che uno compie andrebbe fatto con sano divertimento, almeno per me è sempre stato così. Senza dimenticare poi che in campo si va in undici e di conseguenza bisogna considerare che si fa parte di un gruppo. Ma ribadisco che il vissuto che ci si porta dietro fin da piccoli è fondamentale».

Un libro autobiografico, quello scritto da Aldo detto Tonin Serena, da leggere tutto d'un fiato. Anche per riassaporare le atmosfere di un calcio forse passato un po' di moda. Certamente però più vero e che a distanza di anni non ha perso smalto. Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino