Fu signore, nell'allora isola di Candia (come i veneziani chiamavano Creta), dei feudi di Castel di Temini e Dafnes, celebri per la produzione di vini di Malvasia che...
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All'epoca molti tra i Querini, una delle famiglie più antiche e prestigiose di Venezia, si erano trasferiti nei domini “da mar”, essendosi la loro famiglia “macchiata” – poco più di un secolo prima – della congiura ordita nel 1310 da Bajamonte Tiepolo contro il doge Pietro Gradenigo. Esclusi per sempre dal dogado, avevano dovuto anche mutare il loro scudo inquartato d’argento e di rosso.
Il 25 aprile 1431 la nave comandata da Querini salpò dunque da Creta con sessantotto marinai a bordo, stipata di vino, spezie, cotone, cera, allume di rocca e altre mercanzie di valore, diretta verso i mari del Nord. Superato il capo di Finisterre, a metà settembre, l'imbarcazione fu però colpita da una serie di violentissime tempeste che la trascinarono verso nord, spezzandone l'alberatura e il timone. Due mesi più tardi, senza aver incontrato soccorsi e avendo quasi esaurito le scorte di cibo, l'equipaggio abbandonò il relitto semiaffondato affidandosi alla sorte.
Il 14 gennaio 1432 solo sedici uomini toccarono terra su uno scoglio delle isole Lofoten, un arcipelago oggi appartenente alla Norvegia a nord del Circolo Polare Artico, e furono portati in salvo alcuni giorni dopo da alcuni pescatori di Røst (che i veneziani ribattezzarono successivamente in “Rustene”) sulla loro isola. La piccola comunità, 120 persone che vivevano in una dozzina di case con una grande libertà di costumi, colpì profondamente i veneziani. Lo stesso Querini annotò più tardi: “Le donne restavano nude e dormivano con gli stranieri quando i mariti andavano a pescare. Quelle genti vivono il matrimonio come sacramento indissolubile e vivono senza alcuna propria lussuria […] lo stimolo della carne”.
Rimasero per 101 giorni in quello che doveva sembrare loro il paradiso terrestre, finché la maggioranza decise di fare ritorno a casa. Querini arrivò a Venezia il 12 ottobre del 1432. Nella sua relazione non esitò a presentare al Maggior Consiglio anche il merluzzo e la sua tecnica di conservazione che lo rende stoccafisso. “I stocfisi seccano al vento e al sole senza sale, e perché sono pesci di poca umidità grassa, diventano duri come legno. Quando si vogliono mangiare li battono col roverso della mannara, che gli fa diventar sfilati come nervi, poi compongono butiro e specie per darli sapore: ed è grande e inestimabil mercanzia per quel mare”.
Una scoperta rocambolesca e avventurosa, che da quel momento entrò prepotentemente a far parte della cucina veneziana. Fino alla metà del Novecento esisteva anche una tipica figura veneziana, il “bati-bacalà”, che ammorbidiva i pesci essiccati con l’ausilio di un grande martello di legno. Ancora oggi gli abitanti di Røst riforniscono buonissima parte del fabbisogno veneziano e veneto, che si misura in tonnellate. Sull'isola norvegese nel 1932, cinquecentesimo anniversario del naufragio, è stato eretto un cippo in onore di Pietro Querini.
Accanto a Røst un isolotto è stata ribattezzato “isola di Sandrigo”, in onore della cittadina vicentina dove ogni anno si tiene la Festa del baccalà. Sandrigo stessa ha una piazza dedicata a Røst. Come è noto infine, in Veneto vi sono tre modi principali di preparare il baccalà, che conoscono però talmente tante variazioni da finire per diventare ricette familiari. Uno dei modi è “alla Vicentina”; poi c'è il baccalà in umido, ma soprattutto il baccalà mantecato, principe incontrastato della cucina veneziana. Sulla maniera di prepararlo e sugli ingredienti da usare o da non usare assolutamente, come per esempio il latte, vi sono discordanze da Guelfi e Ghibellini. Una contesa che si avvia a raggiungere il suo seicentesimo anno d’età... Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino