Clochard bruciato vivo. Paolo Crepet: «Gli farei passare tutti ​i giorni in un reparto grandi ustionati»

Paolo Crepet
Il professor Paolo Crepet, laurea in Medicina e specializzazione in Psichiatria a Padova, è appunto medico psichiatra, ma è anche un noto sociologo, educatore,...

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Il professor Paolo Crepet, laurea in Medicina e specializzazione in Psichiatria a Padova, è appunto medico psichiatra, ma è anche un noto sociologo, educatore, saggista, opinionista. È in questo suo multiforme ruolo che gli chiediamo un commento in merito alla vicenda di Verona e, soprattutto, alla decisione del Tribunale per i Minorenni di Venezia.


IL FATTO Clochard carbonizzato: nessuna condanna, 17enne affidato in prova

Come valuta la sospensione del processo e la messa alla prova per tre anni di un 17enne, imputato di omicidio volontario aggravato?
«Dipende da cosa si vuole fare. La messa alla prova è uno dei capisaldi della nuova idea di giustizia, soprattutto minorile, evidentemente. Però c'è un però».

LA DICHIARAZIONE Clochard bruciato vivo per noia: «Ogni ​giorno penso a quello che ho fatto»

Quale?
«Il reato commesso è orripilante, di una gravità estrema, peggio di così non so che cosa si posa immaginare. È evidente però che dietro c'è una cultura: un atto del genere nasce da una cultura che non è propria di un ragazzino, ma dell'ambiente in cui evidentemente è cresciuto. Se un ragazzino cresce con l'idea del rispetto per tutte le persone che vivono sul pianeta, non brucia un marocchino dentro la sua macchina. Ecco, l'ho detto: usciamo dalla paura di pronunciarci, noi adulti ci dobbiamo pronunciare, non essere imbarazzati da noi stessi. E quando parlo di cultura dell'ambiente, non mi riferisco solo ai genitori, ma anche alla scuola, al contesto, a quello che si sente in tivù, allo stadio, al bar».
 
E pure a quello che si legge o si vede sui social?
«Certamente. Però torno a dire che un ragazzino può anche andare su un social terribilmente violento, ma se vive in un ambiente in cui gli è stato insegnato di avere sempre rispetto per le diversità, è chiaro che rispetto a quel canale di comunicazione ha maturato degli anticorpi. Se invece non li ha, perché vive in un contesto problematico, allora quei messaggi diventano un rafforzativo laddove si innestano su una cultura razzista, anche se la parola razzista mi fa schifo perché allude all'esistenza di più razze, quando invece ne esiste solo una e cioè quella umana. Ecco, quel ragazzino dovrebbe capire che non ha ucciso uno scorpione, ma un essere umano esattamente uguale a lui». 
Cosa suggerirebbe per questo triennio di prova?

«Farei trascorrere al ragazzino tutti i giorni dei prossimi tre anni in un reparto Grandi Ustionati, affinché vedesse con i suoi occhi gli effetti del fuoco sulla pelle e ascoltasse con le sue orecchie le grida di dolore. Chi ha commesso un crimine del genere, deve capire davvero che quello che ha fatto è molto grave. Se invece la messa alla prova fosse una furbata, cioè una sorta di condono, allora sarei annichilito da questa decisione del giudice. L'alternativa al carcere ha un senso solo se è tremenda, non se è una passeggiata di salute, tipo andare ogni tanto in parrocchia a dare un po' di aiuto al prete. Un'eventualità di questo tipo sarebbe la nostra resa culturale e comunitaria, vorrebbe dire che ci siamo arresi e che sappiamo solo seminare grandine. E a quel punto non potremmo che raccogliere soltanto tempesta».
A.Pe. Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino