La ndrangheta a Verona: una pioggia di condanne 30 anni al boss e al fratello. Pene severe per 20 affiliati

La ndrangheta a Verona: una pioggia di condanne 30 anni al boss e al fratello. Pene severe per 20 affiliati
VERONA - In provincia di Verona ha operato un'organizzazione di stampo mafioso collegata all'ndrangheta calabrese. Lo ha stabilito il Tribunale scaligero, presieduto da...

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VERONA - In provincia di Verona ha operato un'organizzazione di stampo mafioso collegata all'ndrangheta calabrese. Lo ha stabilito il Tribunale scaligero, presieduto da Pasquale Laganà, con l'attesa sentenza emessa ieri sera, attorno alle 21, a carico di venti imputati, accusati di aver operato illecitamente, a vario titolo, a favore del cosiddetto clan Giardino, aderente all'organizzazione criminale calabrese. I pubblici ministeri veneziani Lucia D'Alessandro e Stefano Buccini hanno contestato, oltre all'associazione per delinquere di stampo mafioso, anche i reati di estorsione, truffa, riciclaggio, corruzione, turbativa d'asta, fatture false, traffico di droga. E l'impianto accusatorio (erano stati chiesti complessivamente quasi 300 anni di carcere) è stato in gran parte confermato.


LE PENE
La pena più pesante, 30 anni di reclusione, è stata inflitta ad Antonio Giardino, 54 anni, detto "il Grande", considerato il capo indiscusso. Trent'anni di carcere anche al fratello Alfredo Giardino; 23 anni a Michele Pugliese (ritenuto una sorta di alter ego del capo); 15 anni a Francesco Vallone (titolare della Centro studi Fermi, dove si sarebbero dovuti svolgere i corsi fantasma per gli operatori dell'Amia, l'azienda municipalizzata di Verona). Assolta invece la moglie di Antonio Giardino, Antonella Bova, titolare della Giardino Costruzioni, per la quale la Procura antimafia aveva sollecitato 26 anni di reclusione in quanto, secondo la pubblica accusa, era stata utilizzata dal coniuge per rivestire di liceità le proprie operazioni illecite. Assoluzione anche per Luigi "Paolo" Russo, per il quale i pm avevano chiesto 24 anni di carcere. La sentenza pronunciata ieri è punto d'arrivo dell'inchiesta denominata "Isola Scaligera" che, nel giugno 2020 smantellò quella che, secondo la Procura antimafia di Venezia, costituiva un'articolazione del clan guidato dal boss Pasquale Arena, di Isola Capo Rizzuto. Un gruppo pericoloso, con disponibilità di armi, che secondo gli inquirenti era in stretto contatto con la casa madre.


ECONOMIA INFILTRATA


Per ricostruire le attività illecite, gli investigatori si sono avvalsi di numerose intercettazioni telefoniche e ambientali, ma anche delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, i quali hanno raccontati che l'organizzazione radicata nel Veronese aveva principalmente il compito di ripulire i soldi sporchi: niente azioni eclatanti, che avrebbero richiamato l'attenzione delle forze dell'ordine. L'obiettivo era quello di infiltrare l'economia: tra gli affari finiti sotto inchiesta, alcuni hanno toccato anche Amia, la municipalizzata dei rifiuti del Comune di Verona, che si è costituita parte civile al processo a fianco di Cgil e Regione Veneto. A quest'ultima il Tribunale ha riconosciuto una provvisionale di 150 mila euro, come anticipo del risarcimento danni da quantificare in sede civile; 15mila ciascuno sono stati liquidati ad Amia e Cgil. Per le motivazioni della sentenza bisognerà attendere tre mesi. La prima tranche del processo, celebrata con rito abbreviato (e in attesa dell'appello), si era conclusa alla fine del 2021 con la condanna di altri 20 imputati. Tra i nomi più noti quello di Andrea Miglioranzi ex presidente della municipalizzata Amia, accusato di corruzione e condannato a 2 anni (senza aggravante mafiosa). Assolto invece per l'ex direttore Ennio Cozzolotto. Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino