Maxi-retata di via Piave, dopo un anno solo due stranieri rimpatriati

La retata del 10 luglio 2018 nel rione di via Piave a Mestre
MESTRE - Si fa presto a dire “rimandiamoli a casa loro”. La linea delle espulsioni coatte, fortemente caldeggiata dal precedente governo gialloverde, e ripresa anche...

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MESTRE - Si fa presto a dire “rimandiamoli a casa loro”. La linea delle espulsioni coatte, fortemente caldeggiata dal precedente governo gialloverde, e ripresa anche un po’ a tutti i livelli di politica locale, si scontra con l’evidenza dei numeri. Il rimpatrio, anche in presenza di reati, non è una conseguenza così scontata, in particolare se si parla di rifugiati. Un esempio concreto di queste difficoltà arriva a un anno di distanza dall’operazione “San Michele” della questura di Venezia del 10 luglio 2018. Ordinanza di custodia cautelare per 41 persone, una settantina di indagati in totale: l’inchiesta aveva portato alla luce il fenomeno della mala nigeriana che gestiva lo spaccio di eroina. Formalmente, però, quanti di questi sono stati espulsi a un anno di distanza? Due. 

 
CARCERE E CPR
«Almeno sessanta di questi criminali - aveva dichiarato il giorno dopo la retata l’allora questore Danilo Gagliardi - in città non metteranno più piede». Difficile dire se la profezia di Gagliardi si sia avverata, ma i numeri dell’ufficio immigrazione della questura sembrerebbero andare in un’altra direzione. Con l’operazione, infatti, sono state verificate le posizioni di 93 stranieri. Non solo, quindi, quelli direttamente coinvolti nell’inchiesta, ma anche le posizioni minori, comunque vicine in qualche modo al clan. Di questi, 31 (30 nigeriani e un senegalese) sono finiti in carcere, e al momento si trovano ancora lì. Dodici sono stati accompagnati al centro per il rimpatrio di Bari (7 nigeriani, 2 senegalesi, un colombiano, un bengalese e un tunisino), e qui la questione è comunque complessa. Ma anche in questo caso non è automatico il respingimento. Dopo l’accompagnamento al Cpr, serve la convalida (sul posto) del giudice di pace entro 48 ore. Poi partono i ricorsi, in più gradi. Il tempo massimo in cui si deve concludere l’iter è 60 giorni, che possono essere prorogati però fino a sei mesi. In questo periodo, i respinti rimangono a disposizione nel centro. Lo straniero inoltre deve essere riconosciuto dal Paese d’origine che, in caso di mancanza di documento, fornisce un passaporto provvisorio. I rapporti con i consolati non sono sempre all’acqua di rose, possono essere più o meno complessi a seconda delle diverse disponibilità. Con la Nigeria, per esempio, le difficoltà sono enormi. Sul riconoscimento, ma anche perché gran parte dei paesi africani non hanno una vera e propria anagrafe, e se ce l’hanno è talmente recente da non essere aggiornata. Gran parte delle registrazioni, infatti, hanno un’unica data: 1. gennaio, cambia solo l’anno. In caso di omonimia nello stesso anno di nascita, quindi, servono ulteriori e approfondite verifiche per accertare l’identità del respinto. E i tempi, inevitabilmente, si dilatano. In sintesi: con una stratificazione burocratica di questo tipo, non è che tutti gli accompagnamenti si traducano in espulsioni. E di quei dodici, di fatto, una volta in gestione al Cpr, si sono perse le tracce. 
ESPULSIONI E SENTENZE

Veniamo alle espulsioni: quelle certe sono due: un tunisino e un nigeriano, trovati in possesso di documenti di identificazione e irregolari in Italia. Il resto degli stranieri identificati e controllati durante l’operazione sono risultati regolari sul territorio italiano, perché titolari di un permesso di soggiorno o comunque richiedenti asilo. Sui rifugiati, inoltre, c’è il veto della Corte di giustizia dell’Unione europea. La sentenza è quella delle cause riunite C-391/16, C-77/17 e C-78/17: i giudici comunitari hanno stabiliti che la revoca dello status di rifugiato, quando c’è un rischio per la persona in questione, fa perdere alcuni benefici previsti dalla direttiva, ma non permette il rimpatrio, anche nel caso di reati. Il riferimento è la Convenzione di Ginevra: il respingimento non può avvenire verso un paese in cui il rifugiato corra il rischio di essere ucciso, torturato o perseguitato.  Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino