UDINE - «Chi indossa le ali anche solo una volta, non le perde più». Suona come una dichiarazione d'amore, un sentimento quasi primordiale, la frase simbolo...
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Comandante, è più facile scrivere un libro o pilotare?
«Scrivere si è dimostrato più complicato di quanto potessi immaginare - sorride Jan Slangen - ho iniziato a buttar giù pensieri: lasciavo libera la mente nel ripercorrere i meravigliosi anni nell'Aeronautica Militare. Però poi fare il montaggio si è rivelato più difficile».
Quando ha capito che voleva diventare pilota?
«All'ultimo anno di liceo dovevo scegliere cosa fare, avevo molte passioni tre cui quella per il mare e il cielo non era tra le priorità. Un amico però mi spinse a fare domanda per l'Accademia dell'Aeronautica Militare e di lì tutto è iniziato».
Conosceva le Frecce Tricolori?
«Ne ho sentito parlare per la prima volta in occasione di una tragedia, quella di Ramstein nel 1988 in cui un aereo si abbatté sulla folla causando sessantasette vittime. All'epoca avevo 13 anni e non avevo mai visto un'esibizione acrobatica».
Eppure ha voluto farne parte.
«Ho sentito che era la strada giusta, una sensazione che è arrivata dalla pancia, non dalla testa. Dopo aver concluso l'accademia ho frequentato due anni di scuola in America e per quattro anni ho pilotato Amx. A 29 anni sono entrato nelle Frecce Tricolori».
È stato difficile entrare?
«La selezione non è tanto tecnica, perché quella c'è già stata in precedenza, si guarda soprattutto alla capacità di fare squadra: la prospettiva deve passare dall'io al noi. Perché a quella velocità non c'è tempo per pensare, bisogna sempre andare all'istante dopo. Non si possono provare emozioni, la concentrazione e la freddezza sono al massimo».
Un pilota delle Frecce Tricolori senza emozioni?
«Non durante il volo, l'emozione fortissima è quella che si prova subito dopo. Vedi gli occhi degli spettatori e cogli la magia, solo allora ti rendi conto di aver fatto qualcosa di straordinario».
Ha mai rischiato?
«Sì è capitato e qui è importante la squadra che capisce e corregge. C'è però un addestramento quotidiano, per i primi sei mesi si sale in aereo due-tre volte al giorno. All'inizio si vola basso e poi ogni volta si aggiunge un pezzettino. Fino a fare tutte le figure e a volare sempre più in alto».
L'esibizione più bella?
«Ce ne sono state molte, ma sicuramente porto nel cuore quella di Beirut in Libano. Fu un evento che andava al di là dell'esibizione. Noi eravamo il biglietto da visita del nostro paese per mantenere degli equilibri internazionali. Abbiamo gestito una situazione non facile. La folla era in delirio, aveva bisogno di stabilità, e lì mi sono sentito come un supereroe senza super poteri».
Cos'è stato per lei volare nella squadra acrobatica?
«Libertà, sentirsi parte di qualcosa che è di tutti, orgoglio di colorare il cielo con il tricolore, di rappresentare l'Italia. Quello delle Frecce Tricolori è un ambiente sano, un'eccellenza che veicola valori positivi, per me ha significato tanto, ero legato a quel senso di appartenenza e di unione nei colori della bandiera italiana».
Cosa consiglierebbe ad un giovane che vuole intraprendere la sua carriera?
«Di crederci fino in fondo e di dare tutto se stesso. Qualsiasi percorso arduo non è privo di ostacoli, ma le prove stanno proprio nella capacità di superarle».
Lei è anche un po' veneto e friulano?
«Certo, mia moglie Caterina è di Chioggia, ho anche ricevuto la cittadinanza onoraria chioggiotta. Inoltre ci siamo conosciuti a Lignano dopo un'esibizione e ora viviamo a Udine, perché abbiamo deciso di essere vicini a Rivolto, dove c'è la base delle Frecce Tricolori».
E se i suoi figli volessero diventare piloti?
«Al di là di quello che sceglieranno, vorrei che volassero sempre alto. Malgrado i giovani siano oggi bombardati da mille informazioni, mi piacerebbe sapessero individuare la loro passione e la seguissero volando sempre più in su».
Raffaella Ianuale
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Il Gazzettino