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BELLUNO - Nell’estate delle roventi polemiche per la vicenda del generale Roberto Vannacci, torna ad accendersi il caso del sergente maggiore capo Carmelo Lo Manto. O meglio, dell’ex sottufficiale dell’Esercito, già effettivo al Settimo Reggimento Alpini di Belluno: il ministero della Difesa ha infatti disposto la perdita del grado per rimozione nei confronti del 48enne, condannato (per la prima volta in Italia) in via definitiva a 15 mesi di reclusione, con sospensione condizionale della pena, per diffamazione ai danni dell’allora capitano e ora maggiore Karim Akalay Bensellam, con l’aggravante «dell’avere commesso il fatto per finalità di discriminazione, di odio etnico, nazionale e razziale». Il siciliano aveva chiesto una sanzione temporanea, tale da consentire «la conservazione del rapporto di lavoro», ma il Tar del Veneto ha ritenuto che sia stato correttamente tenuto conto «della speciale gravità del fatto nonché del suo elevatissimo disvalore», per citare la sentenza che è stata pubblicata lunedì e che potrà essere appellata davanti al Consiglio di Stato.
LE OFFESE
A pesare è la condanna inflitta dal Tribunale militare di Verona, confermata dalla Corte militare d’appello di Roma e ribadita dalla Cassazione per il comportamento tenuto, dalla fine del 2014 alla metà del 2017, «durante le cerimonie dell’alzabandiera e durante gli addestramenti, alla presenza di numerosi militari».
LA LINEA DURA
Il ministero retto da Guido Crosetto ha però scelto la linea dura, in quanto «fatti di così notevole gravità hanno un evidente riflesso tanto sul servizio quanto sul prestigio e l’immagine della Forza Armata di appartenenza e risultano incompatibili con i doveri imposti a ogni militare, specie se rivestito di un grado», tanto da convincere la Difesa che il sottufficiale «non possa essere utilmente recuperato al rispetto dei principi che governano il sodalizio militare». Lo Manto ha impugnato il decreto al Tar, assistito dall’avvocato Michela Scafetta (che per la cronaca nei giorni scorsi si è schierata su Facebook con il generale Vannacci: «Condivido ogni sua parola e condivido il suo coraggio»), facendo presenti anche le «ottime valutazioni» riportate in passato. Ma i giudici amministrativi di primo grado hanno reputato «infondato» il suo ricorso: «La mancata documentazione di chiari indizi di pentimento (o quanto meno dell’avvio di un percorso di rielaborazione delle proprie azioni) da parte del ricorrente viene così a compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario con l’Esercito».
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