Chirurgo d'avanguardia, sindaco per 10 anni e poi volontario, ecco chi è Francesco Lunghi. «Una vita in trincea tra Africa e Covid»

Chirurgo d'avanguardia, sindaco per 10 anni e poi volontario, ecco chi è Francesco Lunghi
Francesco Lunghi, 75 anni, è un uomo che ha vissuto sempre in prima linea e con grande intensità: emigrato dalla Basilicata al Friuli nel dopoguerra con la famiglia,...

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Francesco Lunghi, 75 anni, è un uomo che ha vissuto sempre in prima linea e con grande intensità: emigrato dalla Basilicata al Friuli nel dopoguerra con la famiglia, ha trovato casa a Monselice. Chirurgo all'avanguardia, sindaco per 10 anni, volontario in Kenia, chiamato alla guida della casa di riposo dopo 27 morti è riuscito a farla uscire dall'incubo e oggi l'istituto è senza contagi.



Le molte vite del dottor Francesco Lunghi, due volte emigrato, due volte medico, due volte sindaco, due volte uomo dell'emergenza in una casa di riposo in pieno Covid. Emigrato bambino, come tanti, dal Sud al Nord nell'Italia ingenua e impetuosa del dopoguerra e poi in quella del boom. Chirurgo per passione e poi per amore dell'Africa. Da volontario e a titolo gratuito ha fatto uscire dall'incubo la casa di riposo di Monselice: un anno fa 110 ospiti e 40 operatori erano risultati positivi e c'erano stati 27 morti; oggi l'istituto è totalmente covid-free e festeggia alcuni centenari. Francesco Lunghi, 75 anni, viene da Rivello, in provincia di Potenza. Vedovo dal 2009, due figli: Enrico, che insegna fisica teorica negli Usa; Roberta, veterinaria. Nonno di 4 nipoti. È arrivato a Nordest a 8 anni, su un treno dalla Basilicata alla pianura friulana, fino a Palmanova.


Come mai i Lunghi sono emigrati?
«Mio padre Gaetano, lombardo, era segretario comunale in un centro del Meridione dove ha conosciuto mia madre Edvige. Quando hanno capito che laggiù per i loro quattro figli non c'era futuro, papà ha chiesto il trasferimento in Friuli, dove la mamma ha continuato a fare la maestra elementare. Avevo 8 anni, non mi sono reso conto delle differenze tra la regione che lasciavo e quella che trovavo, ero un bambino e anche la scuola elementare, con una madre insegnante, non era un problema: ero in anticipo rispetto ai compagni, ho fatto la maturità a 16 anni. Poi mi sentivo friulano, soprattutto quando sono andato al liceo scientifico Marinelli di Udine e quegli anni sono stati i più formativi della mia vita. Mi sono iscritto in Ingegneria a Trieste».


Studiava da ingegnere, come mai ha fatto il medico?
«Avevo appena concluso il biennio, quando ho avuto un incidente stradale con mia madre. Il chirurgo che mi ha operato alla testa e a una gamba mi ha tanto colpito che sono uscito dall'ospedale deciso a iscrivermi in Medicina. Nello stesso periodo mio padre poteva trasferirsi e ha scelto Monselice perché vicina all'università di Padova, dove mi sono laureato nel 1972. Un anno dopo mi sono sposato con Renata. Ho fatto la tesi in chirurgia sperimentale così sono venuto a Monselice dove c'era un chirurgo bravissimo, il professor Luigi Piacentini. Soffrivo il fatto di non andare in sala operatoria e, intanto, mi sono specializzato in gastroenterologia e poi in otorino. A quel punto sono andato in crisi: avrei fatto per tutta la vita tonsille e adenoidi?».


Che risposta si è dato?
«Ho saputo che a New York c'era il centro più avanzato per la cura dei tumori del collo e della gola e con pochi soldi in tasca sono partito per gli Stati Uniti e ho scoperto un mondo nuovo. Sono tornato e potevo finalmente andare in sala operatoria come secondo, sempre da volontario. Quando mi sono sentito pronto, ho iniziato a operare i tumori del collo e il mio è stato il primo intervento in Italia: una ricostruzione con un lembo del muscolo del grande pettorale che può andare a ricostruire anche la lingua o la laringe. L'avevo visto fare al Memorial di New York, è stato un successo tale che sono stato chiamato ad aiutare a farlo in altri ospedali. È stato allora che abbiamo creato la Scuola Veneta Ospedaliera e, grazie all'amicizia con i chirurghi del Memorial, è stato possibile invitarli a tenere conferenze in Italia. Poi ci siamo allargati con interventi nelle cliniche dell'Arizona, di Hong Kong, di Amsterdam. Sono anche membro dell'Organizzazione Europea per la Ricerca dei Tumori con sede a Bruxelles. Ho lavorato fino al 2011 sempre a Monselice che era diventato un po' il centro di riferimento per quel tipo di tumori: nell'ultimo anno abbiamo fatto 400 interventi. Dopo la pensione sono stato nominato tutor per gli interventi e ho operato tutte le settimane».


Cosa c'entra l'Africa?
«Nella Padova universitaria che in quegli anni era difficile e anche pericolosa, io passavo l'estate a costruire strutture per il sociale, ho fatto il muratore a Badia Polesine per la casa di riposo. Nel Duemila mi ha aperto gli occhi un prete che era ricoverato nel mio reparto, dirigeva un ospedale in Kenia, voluto dalla diocesi padovana, era completamente isolato a 200 chilometri da Nairobi, a 2700 metri sull'Altopiano, sotto l'Equatore. Vado con lui in Africa e al rientro scrivo a tutti i colleghi della provincia di Padova chiedendo collaborazione. Ne ho trovato 50 pronti, una grandissima risposta: è nato un progetto con equipe che si alternavano al lavoro ogni due settimane. Tutti volontari, lo facevano in ferie e si pagavano il viaggio. Il presidente della Provincia, Casarin, ha sponsorizzato il viaggio di un container carico di quello che serviva, materiale dismesso dagli ospedali. Abbiamo attrezzato una sala operatoria, nel 2012 abbiamo fatto 3000 visite e 300 interventi e attivato un centro per sordomuti. Nemmeno il Covid ci ha fermato».


Quali sono stati i momenti più difficili?
«Ho conosciuto il vescovo del Kenia e del Burundi che è un paese terribilmente povero, con un'altissima mortalità infantile e con un grande orfanotrofio gestito dalle suore di Madre Teresa di Calcutta. Non ci sono medici, mancano le strutture, e col vescovo abbiamo l'idea di costruire un punto-parto, ma non c'è cemento e il trasporto è impossibile per un paese dilaniato da guerre civili e dove si rischia la vita. E quindi purtroppo non si è potuto fare nulla. Un'altra situazione difficile in Eritrea: dovevo operare un paziente con un tumore alla laringe. Sono partito con i ferri chirurgici da Venezia, l'anestesista era un medico Onu, ho operato su un tavolo di legno con sopra una cerata. Quando il paziente si è svegliato lo abbiamo caricato in macchina e portato a casa perché non c'erano letti. Poi la Romania, dove sono arrivato dopo una telefonata di Mino Damato, il notissimo giornalista e conduttore televisivo. Era a Lignano in vacanza con 30 bambini romeni sieropositivi e tutti con problemi all'udito, è arrivato con un pulmino carico. Mi ha detto che aveva altri cento bambini denutriti e malati nella Romania del dopo Ceausescu, così ci siamo organizzati e abbiamo aperto un laboratorio. Damato era un uomo generoso, è venuto con me in Kenia e con la sua Fondazione ha creato un reparto pediatrico. È morto quasi tra le mie braccia, in Veneto, per le complicazioni di un tumore».


Poi l'esperienza di sindaco di Monselice.
«Era il 1994, fino ad allora non mi ero mai interessato di politica. Ho creato Forza Italia a Monselice, abbiamo iniziato in sette, quando Berlusconi ha vinto le tessere sono diventate più di 300. Per dieci anni ho fatto parte della maggioranza come consigliere, poi per 10 anni sono stato il sindaco. Quando ho finito, ho smesso anche con la politica. Ho trasferito le mie esperienze nel progetto giovani: ho mandato gruppi in giro per venti giorni: nelle capitali degli Usa, nel Bangladesh per vedere la delocalizzazione delle fabbriche venete. Dovevano fare tutti una relazione».


Infine, la casa di riposo?


«A marzo dello scorso anno mi telefona il presidente del Centro Servizi per Anziani di Monselice, 156 posti: Abbiamo un problema e l'Ulss non lo risolve, molti ospiti e alcuni operatori sono positivi al Covid. Mi nominano commissario straordinario per l'emergenza, naturalmente gratis. Ho fatto mettere a letto i pazienti, imposto la mascherina a tutti, ho fatto un braccio di ferro con l'Ulss perché entro 24 ore venissero fatti i tamponi a ospiti e operatori. Il risultato è stato drammatico: a quel punto ho chiuso la casa di riposo, sono riuscito a ottenere in regalo le mascherine FFP2 e anche le tute. È stato pagato un prezzo altissimo, ma a fine giugno erano tutti negativi. Oggi è totalmente covid-free». Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino