Uno zero tondo. Dal 2000 al 2014 il prodotto interno lordo del Nordest non è cresciuto di un centesimo. Per giunta dal 2008 il Nordest ha perso il treno della Baviera e del...
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Anzi, essendo pignoli, al netto dell’inflazione, in quattordici anni il Pil nordestino è diminuito. Il rapporto 2015 della Fondazione Nordest, presentato ieri a Cornuda, nella Tipoteca Auditorium Antiga, dal direttore Stefano Micelli, constata che dal 2008, ultimo anno buono prima della grande crisi, il Triveneto ha perso l’8% di Pil mentre l’economia mondiale, nello stesso periodo, è cresciuta del 50%.
Tuttavia dalla relazione di Micelli, che cade nel 15. anniversario della Fondazione Nordest, il brain trust dell’industria e della finanza triveneta, presieduta dal padovano Francesco Peghin, si evince che ci sono le condizioni per voltare pagina. Quello appena concluso dovrebbe essere l’ultimo anno critico. Lo scenario macroeconomico è cambiato e la parte più dinamica, più esposta alla concorrenza internazionale, si è "resettata" con nuovi fattori di competitività.
A partire dal 2008 gli elementi negativi si sono autoalimentati. La produzione è crollata, le aziende sono ricorse alla cassa integrazione, poi hanno licenziato, il Nordest ha perso così 184 mila posti di lavoro. Tanto che il tasso di disoccupazione è più che raddoppiato passando dal 3,4 al 7,7% (mentre quello del cugini bavaresi è sceso dal 4,3% al 3,1%). Come conseguenza i consumi delle famiglie sono crollati del 6% e gli investimenti addirittura del 22,5%. Anche per colpa di fiscal compact e patto di stabilità. Contro ogni logica economica, e all’opposto di quanto hanno fatto Usa e Gran Bretagna, l’intervento pubblico in Europa è stato pro ciclico. Invece di tagliare gli sprechi, Stato ed enti locali hanno azzerato gli investimenti, peggiorando il quadro economico. Tuttavia il gelo del mercato interno è stato temperato dalla capacità dell’impresa nordestina di generare business all’estero. Questo - spiega Micelli - è il primo segnale di "reset" del modello. La propensione all’export è passata dal 30% al 37% del Pil. Pur non potendo contare su grandi economie di scala e in presenza di un euro che ha raggiunto anche quota 1,4 sul dollaro, le imprese sono riuscite ad allargare il proprio mercato negli Stati Uniti e hanno trovato nuovi sbocchi nei Paesi del Golfo e nelle economie emergenti (Cina, India, Brasile e Russia). E’ il segno - spiega Micelli - che il Nordest è alla vigilia della terza rivoluzione industriale. Ha le caratteristiche per diventare un protagonista dell’economia 2.0, che si gioca su tre fattori: capitale umano, cultura e attrattività. «Ciò che rende unico un territorio è la sua storia, un bene non riproducibile» - sintetizza l’economista Chiara Mio, presiedente di Friuladria, tra i principali sponsor di Fondazione Nordest. Ed è su questo che i distretti triveneti hanno puntato per competere nel mercato mondiale. Non a caso l’export agroalimentare, nonostante la crisi, è balzato del 46%. «Non abbiamo copiato la Silicon Valley. Non era questo il nostro modello». Il nuovo volto del manufatturiero del Nordest nasce da un diverso rapporto tra produzione e mercato. «La parola chiave è digital manifacturing - dice Micelli - anziché produrre e poi cercare di vendere, si produce su misura per soddisfare le richieste, quanto più personalizzate, di chi acquista». E in questo le imprese del Nordest potrebbero diventare imbattibili. Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino