Vini Astoria, il nuovo ad Filippo Polegato: «Voglio conquistare gli Usa, il Prosek una minaccia enorme»

Filippo Polegato, da solo e con il padre
TREVISO - Trent'anni tondi, da 8 in azienda. Ecco Filippo Polegato: è lui il nuovo AD di Astoria. «Ho imparato da mio padre il rispetto». Il suo volto...

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TREVISO - Trent'anni tondi, da 8 in azienda. Ecco Filippo Polegato: è lui il nuovo AD di Astoria. «Ho imparato da mio padre il rispetto». Il suo volto è una geografia che racconta mondi diversi. E che è in grado di proiettare il cosmo del prosecco, considerato ancora dichiaratamente glocal, verso una dimensione più ampia. Classe 1991, a sei mesi arrivato in Italia dalla Colombia, oggi Polegato diventa il nuovo amministratore delegato della nuova Astoria, dopo la separazione, consensuale ma non indolore, tra i due fratelli Paolo e Giorgio Polegato. «Mio padre e mio zio sono stati insieme quarant'anni. Mi sarebbe piaciuto fare lo stesso con mio cugino Riccardo. Non è stato così, e abbiamo lavorato perchè restasse tutto di proprietà della famiglia. Non volevamo un fondo in Astoria».


Avvolgiamo il nastro e partiamo dall'inizio
«Sono arrivato in Italia a 6 mesi. Sono nato a Cali, in Colombia, ma sono cresciuto qui, in questo paesaggio. Ho studiato ragioneria al Cavanis. Giocavo a calcio come centrocampista, ho fatto la gavetta nel Montebelluna, poi nel Treviso fino al fallimento. Infine mi sono spostato a Modena».

Juventino sfegatato...
«Si, come mio nonno e buona parte della famiglia. Ad eccezione di mio padre che inspiegabilmente è interista».


Avete sempre sponsorizzato anche il calcio 
«Si, è una grande passione. Attualmente abbiamo mantenuto la sponsorizzazione al Cittadella per la grande amicizia tra la mia famiglia e la famiglia Gabrielli».


Quando sceglie di entrare nel mondo del vino?
«Ho avuto da subito le idee chiare. Sapevo che dopo il calcio avrei fatto questo. Dieci anni fa mi sono ritirato dall'attività: ho trascorso un anno e mezzo tra Stati Uniti e Australia. Ma ho iniziato presto a fare un po' di tutto in azienda, mentre negli ultimi anni mi sono occupato della parte commerciale».


Tra le sue passioni c'è anche il ciclismo
«Devo dire che è maturata in anni di sponsorizzazioni al Giro d'Italia. Un'attività che impiega tre mesi di lavoro l'anno, ma che dà enormi soddisfazioni, e mi ha permesso di acquisire moltissime competenze».


Arriviamo alle ultime vicende 
«Mio zio Giorgio e i suoi figli ci comunicano la decisione di iniziare un'avventura indipendente nel mondo del vino. Io e mio padre ci mettiamo seduti e iniziamo a ragionare. In questo momento non è raro che fondi esterni acquisiscano quote d'azienda. Ma non era quello che volevamo, desideravamo mantenere la nostra identità di storia famigliare. Abbiamo fatto i nostri conti, abbiamo capito se fosse una cosa che potevamo- non senza sacrificio- sostenere. Abbiamo deciso di crederci. E io ho voluto assumermi parte della responsabilità di questo nuovo corso. Ma non l'avrei fatto se non avessimo un team di collaboratori fidatissimi e di enorme esperienza». 


I suoi fratelli staranno in azienda?
«I miei fratelli vivono entrambi a Milano. Wilson, che ha 33 anni, fa l'interior designer. Carlotta, 35 anni si è per molto tempo occupata della comunicazione di Astoria. Ma ora vuole lavorare anche per altre aziende».


Quali sono i vostri obiettivi oggi come azienda?
«Io credo ci sia tutta una fetta di mercato estero da conquistare. Guardo soprattutto al cuore degli Stati Uniti. E' vero che le due coste bevono bollicine e soprattutto rosè, ma c'è una grande fetta di mercato per noi. Oggi abbiamo un 30% di export. Io punterei al 50%».


Il Prosek è una minaccia?
«Enorme. Per il prosecco e per il mondo del vino in generale».


La vostra azienda è sempre stata in prima linea con messaggi solidali e contro l'intolleranza
«Continueremo su questa linea, credo molto nella responsabilità sociale dell'azienda».
Lei è un uomo del prosecco atipico.

Anche nell'aspetto


«E' vero. E mi succedono le cose più strane. In America mi hanno usato anche come testimonial per una campagna sull'orgoglio afro, in Italia a volte mi è capitato di vedere sguardi perplessi. Ma è stato solo l'impatto del primo momento». Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino