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Raramente un risultato elettorale è stato così chiaro e incontrovertibile come quello di domenica. Questa volta non c'è spazio per gli equilibrismi dialettici con cui i partiti cercano a urne chiuse di cantar comunque vittoria o di nascondere i loro flop. Numeri alla mano, non ci sono dubbi su chi abbia vinto e su chi abbia perso. Ha trionfato Giorgia Meloni che, forte di una linea politica netta e chiara, senza gli sbandamenti dei suoi compagni di coalizione, ha portato Fdi ad essere di gran lunga il primo partito italiano, sconfiggendo l'ostracismo ideologico di una parte dell'opinione pubblica non solo nazionale. A questo punto è lei la candidata naturale per Palazzo Chigi e toccherà innanzitutto a lei, di concerto con il Quirinale, trovare il giusto equilibrio nella non facile formazione del nuovo governo. C'è però anche un'altra forza politica che, a scrutinio ultimato, ha potuto brindare: è M5s a cui Giuseppe Conte ha dato nuova linfa, assegnandogli un inedito ruolo di partito-sindacato del Meridione.
La strenua difesa del reddito di cittadinanza e dei bonus hanno condannato i nuovi 5stelle a percentuali minime al Nord, ma l'hanno fatto diventare la prima forza politica di Sud e Isole. Un tesoro politico che non sarà facile spendere stando all'opposizione, ma che assegna per ora a M5s quel ruolo di terzo polo del sistema politico italiano, inutilmente ricorso da Calenda e Renzi.
I Fratelli d'Italia hanno superato ovunque il 30% di consensi e prosciugato i bacini elettorali leghisti, facendo il pieno di delusi del Carroccio proprio nel giorno del successo elettorale di quel centrodestra di cui Salvini, fino a non molto tempo fa, riteneva di essere il leader naturale e predestinato. Un autentico choc per il popolo di Pontida. Ma Salvini ha pagato le conseguenze dell'errore peggiore in cui un leader politico può incorrere: non saper leggere la realtà che lo circonda. Il capo leghista non ha capito che il consenso intorno a lui si stava sgretolando e che, soprattutto, lui stesso con le sue giravolte sul green pass, le sue spericolate iniziative diplomatiche sul fronte russo, l'ambiguo e incerto appoggio al governo Draghi, era diventato larga parte del problema. Il capo della Lega non ha capito che il suo progetto di partito nazionale era ormai defunto, ma che, nel contempo, nei territori di riferimento, si era fortemente appannata l'identità leghista di partito-sindacato del Nord. Difficile capire cosa produrrà nel Carroccio questo tracollo. La parola dimissioni non sembra appartenere al vocabolario di Salvini.
Del resto lo statuto della Lega consegna al segretario enormi poteri e il leader, suscitando non poche proteste, ha fatto eleggere in Parlamento molti fedelissimi con il compito di garantirgli una cintura di sicurezza. Dipenderà anche da come deciderà di muoversi il cosidetto partito degli amministratori che fa capo in primo luogo a Zaia e Fedriga, tradizionalmente prudenti e poco inclini ad occuparsi di giochi di partito. Ma in gioco questa volta non c'è solo il destino di un segretario o di una forza politica. La Lega, pur deragliata sotto il 10% a livello nazionale, resta la seconda gamba di quel centrodestra che si appresta a governare il Paese. E sulla stagione delle fughe in avanti, delle ambiguità e della politica a colpi di tweet sarebbe bene calasse il sipario.
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Il Gazzettino