Si definisce una voce “fuori dal coro”. Serena, 40 anni, è uno dei medici che lavorano nelle terapie intensive del Santa Maria della Misericordia di Udine che...
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«Questa esperienza insegna che l’unione fa la forza» e dopo tanti anni, con l’attuale unificazione delle terapie intensive dettata dall’emergenza, per la prima volta si sente dire «qui dobbiamo diventare tutti fratelli e lo siamo. C’è un nemico comune, se noi ci uniamo non può imperare». È l’altro lato della medaglia, «sono nate tante reti Whatsapp, c’è un gruppo Facebook per medici per condividere esperienze e c’è una grande condivisione tra le diverse specialità: anestesisti, medici dell’emergenza, pneumologi e tanti altri si trovano sullo stesso fronte». Quello del Covid-19.
IN CORSIA TRA LE DIFFICOLTÀ
Una voce davvero fuori dal coro, la sua, pur senza dimenticare le difficoltà. Due figli a casa, sei e otto anni, che nei primi giorni sono andati «in vacanza dai nonni. Poi mi sono resa conto della protezione che avevo, in cui mi sento tutelata. Certo – precisa – quando mi bardo sono giudice di me stessa. Ma abbiamo dispositivi di protezione e veniamo sottoposti a tampone» e la sicurezza c’è. Soprattutto dopo aver superato il primo impatto, l’arrivo dei primi casi che hanno portato Serena come molti altri a chiedersi: «Ce la farò? E ogni giorno ancora continuiamo a chiederci per quanto tempo lavoreremo in emergenza; ho l’impressione che sia un nemico contro cui combatteremo a lungo», tra pazienti che arrivano «con gli occhi sbarrati, la paura dell’ignoto, pazienti che si trovano davanti una maschera e che riescono a vedere solo i nostri occhi. Cerchiamo di rassicurarli» e poi la soddisfazione di vedere quelli che ce la fanno e vengono estubati: «Hanno un risveglio lento dopo un trattamento farmacologico pesante. Prendono confidenza pian piano e alla fine scrivere una lettera di dimissioni è sempre una grande soddisfazione».
PICCOLE GRANDI GIOIE
La stessa di cui parla un altro medico che lavora in una terapia intensiva Covid, la prima a essere stata attivata. «Quando abbiamo estubato e mandato via il primo paziente è stato un bel momento, soprattutto sentendo le notizie che arrivano dalla Lombardia. Quando un paziente ce la fa, anche noi viviamo la giornata in maniera diversa, è una boccata d’ossigeno. All’inizio – non lo nasconde – il clima era pesante, ora va meglio». Ma la differenza si sente perché quando rientra da una giornata di lavoro, «non è come tre mesi fa, sono situazioni più pesanti, ma c’è la sensazione di partecipare a qualcosa di straordinario, pur nella sua drammaticità. Anche dalle persone abbiamo un feedback nuovo, mai avuto prima».
E anche lui sottolinea il clima che si è formato tra le mura del Santa Maria, «c’è un coinvolgimento di gruppo mai visto finora, c’è condivisione e dal punto di visto lavorativo questo è stimolante». Un clima necessario considerando che «gli ospedali saranno gli ultimi a vedere la fine dell’emergenza e dovremo tenere le antenne dritte ancora a lungo. In realtà non so come stia andando negli altri ospedali della regione, leggo i dati ma non so come sia effettivamente la situazione, la percezione di quello che sta fuori è molto filtrata. Qui da noi, ad esempio, ci sono giornate in cui tutti i posti letto sono occupati».
L’ONDA D’URTO
L’hanno sentita arrivare, gli fa eco una terza collega trentacinquenne, «abbiamo amici e colleghi lombardi a cui abbiamo chiesto come affrontare la situazione. A me, quando a Udine è arrivato il primo malato Covid, ha fatto una strana sensazione e mi sono detta “Ora tocca a noi”». E’ tutto nuovo anche per i camici bianchi, «anche bardarsi – spiega – non è la stessa cosa di prima, stai attento 800 volte. Abbiamo persino fatto corsi di vestizione e svestizione. La paura più grande è all’uscita, con il rischio di portare il virus fuori. Per fortuna io vivo sola – racconta – ma ho deciso di non vedere i miei parenti già dall’inizio di marzo, prima che ci fosse il lock down».
Un carico di lavoro enorme, come immensa è la soddisfazione, anche per lei, quando un paziente ce la fa, «quando non lo vedi tornare è bellissimo. Arrivi al prossimo turno, chiedi di lui e ti dicono che non è rientrato in intensiva. È come se fossi tu a essere stato estubato, sono belle vittorie. La guerra è lunga, ma qualche battaglia si vince». Si vince in una condizione di lavoro nuova, tra giornate tese, tanto che i turni nelle terapie intensive Covid sono di 8 ore e non di più, «uno stress allucinante anche solo per indossare i dispositivi, ma ci adattiamo a tutto. È semplicemente il nostro lavoro e qui c’è una solidarietà spettacolare, non ti senti solo». Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino