Coronavirus. I medici di terapia intensiva: «Così facciamo squadra contro l'epidemia»

Domenica 5 Aprile 2020 di Lisa Zancaner
Una terapia intensiva in Friuli

Si definisce una voce “fuori dal coro”. Serena, 40 anni, è uno dei medici che lavorano nelle terapie intensive del Santa Maria della Misericordia di Udine che ospitano pazienti affetti dal Coronavirus. Se dentro l’emergenza, in una situazione estrema può esserci qualcosa di buono, è di questo che Serena parla, a partire dalla fusione tra medici ospedalieri e universitari, tutti operativi sullo stesso fronte.
«Questa esperienza insegna che l’unione fa la forza» e dopo tanti anni, con l’attuale unificazione delle terapie intensive dettata dall’emergenza, per la prima volta si sente dire «qui dobbiamo diventare tutti fratelli e lo siamo. C’è un nemico comune, se noi ci uniamo non può imperare». È l’altro lato della medaglia, «sono nate tante reti Whatsapp, c’è un gruppo Facebook per medici per condividere esperienze e c’è una grande condivisione tra le diverse specialità: anestesisti, medici dell’emergenza, pneumologi e tanti altri si trovano sullo stesso fronte». Quello del Covid-19.
IN CORSIA TRA LE DIFFICOLTÀ
Una voce davvero fuori dal coro, la sua, pur senza dimenticare le difficoltà. Due figli a casa, sei e otto anni, che nei primi giorni sono andati «in vacanza dai nonni. Poi mi sono resa conto della protezione che avevo, in cui mi sento tutelata. Certo – precisa – quando mi bardo sono giudice di me stessa. Ma abbiamo dispositivi di protezione e veniamo sottoposti a tampone» e la sicurezza c’è. Soprattutto dopo aver superato il primo impatto, l’arrivo dei primi casi che hanno portato Serena come molti altri a chiedersi: «Ce la farò? E ogni giorno ancora continuiamo a chiederci per quanto tempo lavoreremo in emergenza; ho l’impressione che sia un nemico contro cui combatteremo a lungo», tra pazienti che arrivano «con gli occhi sbarrati, la paura dell’ignoto, pazienti che si trovano davanti una maschera e che riescono a vedere solo i nostri occhi. Cerchiamo di rassicurarli» e poi la soddisfazione di vedere quelli che ce la fanno e vengono estubati: «Hanno un risveglio lento dopo un trattamento farmacologico pesante. Prendono confidenza pian piano e alla fine scrivere una lettera di dimissioni è sempre una grande soddisfazione».
PICCOLE GRANDI GIOIE
La stessa di cui parla un altro medico che lavora in una terapia intensiva Covid, la prima a essere stata attivata. «Quando abbiamo estubato e mandato via il primo paziente è stato un bel momento, soprattutto sentendo le notizie che arrivano dalla Lombardia. Quando un paziente ce la fa, anche noi viviamo la giornata in maniera diversa, è una boccata d’ossigeno. All’inizio – non lo nasconde – il clima era pesante, ora va meglio». Ma la differenza si sente perché quando rientra da una giornata di lavoro, «non è come tre mesi fa, sono situazioni più pesanti, ma c’è la sensazione di partecipare a qualcosa di straordinario, pur nella sua drammaticità. Anche dalle persone abbiamo un feedback nuovo, mai avuto prima».
E anche lui sottolinea il clima che si è formato tra le mura del Santa Maria, «c’è un coinvolgimento di gruppo mai visto finora, c’è condivisione e dal punto di visto lavorativo questo è stimolante». Un clima necessario considerando che «gli ospedali saranno gli ultimi a vedere la fine dell’emergenza e dovremo tenere le antenne dritte ancora a lungo. In realtà non so come stia andando negli altri ospedali della regione, leggo i dati ma non so come sia effettivamente la situazione, la percezione di quello che sta fuori è molto filtrata. Qui da noi, ad esempio, ci sono giornate in cui tutti i posti letto sono occupati».
L’ONDA D’URTO
L’hanno sentita arrivare, gli fa eco una terza collega trentacinquenne, «abbiamo amici e colleghi lombardi a cui abbiamo chiesto come affrontare la situazione. A me, quando a Udine è arrivato il primo malato Covid, ha fatto una strana sensazione e mi sono detta “Ora tocca a noi”». E’ tutto nuovo anche per i camici bianchi, «anche bardarsi – spiega – non è la stessa cosa di prima, stai attento 800 volte. Abbiamo persino fatto corsi di vestizione e svestizione. La paura più grande è all’uscita, con il rischio di portare il virus fuori. Per fortuna io vivo sola – racconta – ma ho deciso di non vedere i miei parenti già dall’inizio di marzo, prima che ci fosse il lock down».
Un carico di lavoro enorme, come immensa è la soddisfazione, anche per lei, quando un paziente ce la fa, «quando non lo vedi tornare è bellissimo. Arrivi al prossimo turno, chiedi di lui e ti dicono che non è rientrato in intensiva. È come se fossi tu a essere stato estubato, sono belle vittorie. La guerra è lunga, ma qualche battaglia si vince». Si vince in una condizione di lavoro nuova, tra giornate tese, tanto che i turni nelle terapie intensive Covid sono di 8 ore e non di più, «uno stress allucinante anche solo per indossare i dispositivi, ma ci adattiamo a tutto. È semplicemente il nostro lavoro e qui c’è una solidarietà spettacolare, non ti senti solo».

Ultimo aggiornamento: 10:30 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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