Coronavirus, "spariti" i farmaci da somministrare a domicilio: terapie solo in ospedale

Le unità assistenziali a domicilio
PORDENONE E UDINE - Ci sono armi, ma al momento sono spuntate. E il “miraggio” di poter curare i malati di Covid a casa, con veri e propri farmaci, in regione per ora...

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PORDENONE E UDINE - Ci sono armi, ma al momento sono spuntate. E il “miraggio” di poter curare i malati di Covid a casa, con veri e propri farmaci, in regione per ora è rimasto tale. Le Usca, cioè le Unità speciali di continuità assistenziale che dall’alba della fase due seguono i pazienti sintomatici in isolamento domiciliare, oggi sono rimaste senza farmaci efficaci contro la malattia da Coronavirus. Pertanto possono solamente monitorare i pazienti, e decidere di concerto con gli esperti di trasferirli in ospedale. Sì, perché solo in corsia, allo stato attuale, in Friuli Venezia Giulia si possono somministrare i farmaci ritenuti “buoni” per il Covid-19. 


LA FRENATA
Tra fine aprile e inizio maggio, il personale delle unità assistenziali viaggiava con una valigetta sempre pronta. All’interno c’erano le scorte di un farmaco che pareva promettente: si chiamava idrossiclorochina, nota col suo nome commerciale Plaquenil. Era l’antimalarico che andava per la maggiore e anche le Usca della regione (tre, allora, in provincia di Pordenone) la utilizzavano somministrandola ai pazienti con sintomi a domicilio. Poi, però, è arrivato lo stop dell’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco. «Si è scoperto - riferiscono dal servizio farmaceutico dell’Azienda sanitaria del Friuli Occidentale - che non aveva alcun effetto sulla salute dei pazienti affetti da Covid-19. Al momento, quindi, è stata tolta l’unica arma che si utilizzava nelle cure a domicilio». Così le Usca girano per le case “disarmate”. Allo stato attuale, quindi, i medici che casa per casa monitorano i sintomi del Covid non possono fare altro se non controllare, prendere dati, “intervistare” i pazienti. Ma non somministrare farmaci, se non quelli classici per abbassare la febbre. Il loro lavoro resta prezioso, perché consente di sgravare i reparti di Malattie infettive da ricoveri non necessari e da un lavoro già duro di suo. Ma rispetto ai primi mesi sul campo, le dotazioni sono molto più limitate. 
IN CORSIA

La vera cura dei malati di Covid-19 avviene in ospedale, al momento al Santa Maria degli Angeli di Udine e a Trieste-Cattinara. Solo lì è consentita la somministrazione dei farmaci che fanno parte dei primi protocolli approvati. Ma anche in questo contesto non mancano le preoccupazioni. Oggi, infatti, iniziano a scarseggiare le scorte del Remdesivir, l’unico antivirale che ha dimostrato qualche effetto positivo contro l’evoluzione più grave della malattia. La richiesta in crescita proveniente dagli Stati Uniti mette in crisi l’approvvigionamento del farmaco in tutta l’Unione Europea e gli effetti si fanno sentire anche in regione. E se i malati dovessero crescere in modo esponenziale, si rischierebbe di rimanere a corto di scorte. Oggi per riuscire ad avere il farmaco in corsia bisogna seguire un iter complesso. È necessario passare sempre dall’Agenzia italiana del farmaco, dal momento che la somministrazione del Remdesivir va decisa paziente per paziente. Non è efficace in tutti i casi, e solo un colloquio tra gli esperti dell’agenzia e i medici che lavorano in reparto è possibile far partire la terapia. Sempre negli ospedali, poi, si viene curati con corticosteroidi ed eparina. Si tratta di una terapia che rappresenta un’evoluzione nello studio del Covid-19 e che si basa sull’esperienza maturata nei primi mesi della pandemia. Il morbo, infatti, aggredisce in vari modi il corpo umano. Anche questi ultimi due trattamenti, però, non possono essere avviati a domicilio. 

 

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Il Gazzettino