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PADOVA - Da Sampdoria-Napoli a Granze-Tribano. Dal palcoscenico più importante al campetto della seconda categoria padovana. Claudio Gavillucci risponde al telefono da un bar di Londra e parte subito come un fiume pieno di rabbia: «Sono passati tre anni da quando ho preso la decisione di sospendere una partita di serie A e siamo ancora qui a leggere di razzismo nei campi da calcio. È cambiato pochissimo, siamo ancora davanti ad un problema enorme e non c'è stata la volontà di migliorare».
Il laziale Gavillucci, 600 partite in carriera di cui 50 in serie A, il 13 maggio 2018 è stato il secondo fischietto nella storia del calcio italiano a fermare momentaneamente una partita per razzismo. L'anno seguente è stato improvvisamente tagliato dall'olimpo degli arbitri e ora si diverte nelle serie minori inglesi, facendo la spola tra Liverpool e Londra.
Nel Padovano un ventiduenne dilettante preso di mira con il gesto della scimmia. Che effetto le fa?
«Se stiamo ancora qui a parlare di queste cose significa che le regole non sono quelle giuste. Bisogna usare il pugno duro e lanciare un messaggio: chi commette questi reati, paga».
Come?
«Con il Daspo a vita. Questi non sono semplici sfottò da stadio: sono reati e vanno perseguiti con la massima durezza e convinzione. Il razzismo è un male che sta rovinando il calcio. In Inghilterra lo hanno capito e qui si arriva anche all'arresto».
Intanto il Tribano, la squadra padovana che domenica ha abbandonato il campo per solidarietà nei confronti del proprio giocatore di colore, è stata punita. Al posto del 3-3 del campo c'è uno 0-3 a tavolino.
«Io capisco perfettamente quella squadra: lanciare un messaggio all'intero mondo del calcio vale molto di più che vincere una partita di seconda categoria.
Sarebbe stato possibile?
«Mi rendo conto che non sia facile e che dal punto di vista legislativo ciò che ha scritto il giudice è impeccabile, ma stiamo parlando della seconda categoria: sport vero, senza interessi economici. L'obiettivo a questi livelli è insegnare qualcosa. Il giudice avrebbe potuto dire: Ok ragazzi, il regolamento direbbe questo. Ma noi siamo qui per insegnare...».
Tecnicamente il regolamento dà anche la possibilità all'arbitro di sospendere la partita per razzismo.
«Sì, ma tra i dilettanti non è come in serie A dove ci sono i responsabili per la sicurezza e strumenti decisamente più adatti a prendere decisioni simili. Spesso in questi campetti parliamo invece di arbitri giovanissimi che fanno quasi volontariato: quando va bene prendono insulti, quando va male le botte. Si trovano a gestire problemi immensamente più grandi di loro».
Cosa serve, quindi?
«Lavorare sulla formazione. Io ora arbitro in Inghilterra le partite della Lega nazionale dilettanti e dei settori giovani professionistici. Prima di ogni partita viene fatto un briefing con i due capitani, i dirigenti e l'addetto al pubblico esclusivamente sul tema del razzismo. Qui sono direttamente le società a vietare gli ingressi nei campi. Anche in Italia bisognerebbe dare maggior importanza alla responsabilità delle società, che spesso nel mondo dei dilettanti conoscono direttamente i propri tifosi».
È fiducioso?
«Nel comitato nazionale delll'Aia (l'associazione degli arbiri, ndr) si è insediato un bravissimo dirigente che viene dal Veneto, Antonio Zappi. È molto preparato e sensibile al tema del razzismo. Sono sicuro che si starà già prodigando».
Lei ha sospeso una partita per razzismo, ma negli anni successivi è passato dalla serie A ai campetti di dilettanti e ragazzini. Ha pagato per il suo coraggio?
«Ho scritto un libro per mettere in fila tutto quello che mi è successo, poi ognuno fa la sua valutazione».
Gavillucci saluta e sale in metropolitana: lo aspetta una partita dei dilettanti inglesi. Prima di mettere giù, sorride: «Sì, qui è davvero un altro mondo». Pensando a certe situazioni del calcio italiano, però, il suo è un sorriso amaro.
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Il Gazzettino