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VENEZIA - Negli spazi dell’Arsenale, alla cerimonia di apertura della mostra del padiglione cinese, l’ordine di scuderia è di parlare «soltanto di arte». «Il sole è tornato a splendere» dice la rappresentante degli organizzatori cinesi, nel presentare il curatore della mostra, il professor Ruan Xing. Ma a pesare sono le assenze dell’ambasciatore e della delegazione ministeriale, a suo tempo annunciate. Anche dagli uffici dell’Ambasciata cinese di Roma minimizzano, confermando che l’ambasciatore Jia Guide non è venuto a Venezia, ma solo per un problema di «agenda troppo fitta». Quasi un muraglia cinese, quella alzata ieri dalla Cina sul repentino cambio di programma che ha drasticamente tagliato i festeggiamenti veneziani per l’apertura della mostra “Renewal, a symbiotic narrative”, che rappresenta la Cina alla 18. mostra internazionale di architettura della Biennale appena inaugurata. Tutta colpa - a sentire i rumors della vigilia - di una delle opere scelte dalla curatrice della Biennale Lesley Lokko per la selezione ufficiale della mostra: “Killing Architects - Investigating Xinjiang’s Network of detention camp”, che di fatto è un’inchiesta sui campi di detenzione realizzati dal governo cinese nella regione degli uiguri, la popolazione di origine musulmana in lotta per la propria identità. A firmarla l’architetta britannica, ma residente in Olanda, Alison Killing, insieme ad una giornalista e ad uno sviluppatore, che per questo lavoro hanno già vinto il prestigioso premio Pulitzer per il giornalismo. Nelle Corderie dell’Arsenale espongono una mezz’ora di video dove spiegano come incrociando più dati – dalle immagini satellitari, alle interviste di ex prigionieri - avrebbero trovato conferma della presenza di una fitta rete di veri e proprio campi di prigionia, circondati da muraglie, filo spinato, con dormitori e fabbriche per il lavoro forzato. Immagini che in questi primi giorni di apertura della mostra devono essere state notate dai rappresentanti della Cina, il cui Governo ha sempre negato la presenza di campi di concentramento, sostenendo che si tratta piuttosto di luoghi di educazione per contrastare le derive estremiste e il pericolo terrorismo, e bollato come falsi reportage di questo tipo.
MURAGLIA DI SILENZIO
Insomma un tema caldo, da tempo all’attenzione della comunità internazionale sul fronte dei diritti umani, che le immagini esposte alla Biennale riportano al centro.
CERIMONIA MINORE
Intanto al padiglione cinese si è tenuta comunque una cerimonia di apertura. In assenza di ambasciatore e delegazione ministeriale, dopo aver inviato le mail di cancellazione agli invitati italiani, è stata un evento in tono minore. Palpabile il fastidio per la notizia della cancellazione anticipata dal Gazzettino. Anche qui nessuno ha voluto commentare. «Qui si parla solo di arte» hanno precisato gli organizzatori, attraverso una interprete. Poi è stata la volta dei discorsi ufficiali. Il curatore ha spiegato il senso di una mostra tutta dedicata al rinnovamento che nel contesto culturale cinese è uno «stato mentale», dove i cambiamenti avvengono nella continuità. Così raccontano foto e plastici dedicati alle grandi trasformazioni vissute dalla Cina negli ultimi 40 anni. Applausi e brindisi, nel giardino accanto alle Gagiandre. Dall’altra parte dell’Arsenale, in uno spazio delle Corderie, continuano a scorrere le immagini del video sui campi di detenzione. «Abbiamo calcolato che possono contenere oltre un milione di persone - spiega Killing -. Uno su 25 dell’intera popolazione dello Xinjiang». Solo «bugie» per l’Ambasciata cinese.
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Il Gazzettino