MESTRE - «Mio padre sta morendo in solitudine, tra flebo, cateteri e con le piaghe da decubito al terzo stadio e io non posso vederlo nemmeno per dargli l’ultimo...
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Dopo diversi anni di assistenza domiciliare, la famiglia di Laura si era dovuta arrendere di fronte al progressivo avanzamento della malattia e non aveva avuto altra scelta che quella di ricoverare il padre in una Rsa, quella di via Spalti a Mestre, dove prima del lockdown poteva ricevere le visite quotidianamente. Con l’applicazione delle rigide misure di sicurezza disposte dall’Ulss per prevenire focolai da Covid, da febbraio i contatti con i degenti sono diventati impossibili. «La situazione nelle Rsa è diventata tragica perché non ci è stato più permesso di assistere i nostri cari – spiega Laura – e noi non siamo più riusciti a sapere nulla delle condizioni di mio padre, se non attraverso poche videochiamate. Dopo oltre sei mesi, mi hanno chiamato solo per comunicarmi che mio padre non mangia più e che per nutrirlo devono applicargli un sondino nello stomaco e questo processo accelerato di deperimento mi ha spinto a chiedere di poterlo vedere, cosa che mi è stata negata. Più che come degenti gli ospiti di questa struttura vengono trattati come dei detenuti». Da quando è iniziata l’emergenza sanitaria, lo scambio di informazioni tra il personale interno e i famigliari dei degenti sarebbe diventato complicato: «Per essere informati sulle condizioni di salute di mio padre dobbiamo rincorrere gli infermieri – ricorda Laura – e quando chiamiamo la portineria, prima ci passano il piano dove è ricoverato mio padre e, se siamo fortunati e troviamo l’operatore più disponibile, riceviamo poche notizie veloci sulle sue condizioni di salute, se ha mangiato, se ha dormito e nulla di più. Solo qualche giorno fa dopo sei mesi ho ricevuto la prima chiamata dal medico della struttura che mi ha comunicato che mio padre non mangia più e pesa 40 chili ed ora, senza averlo nemmeno visto, devo assumermi la responsabilità di decidere se autorizzare o meno l’intervento per applicargli il sondino. E’ una situazione che sta diventando di una crudeltà infinita, lì dentro non si muore di Covid ma di solitudine e di disperazione e mi chiedo come sia possibile che dopo sei mesi non sia stata studiata una soluzione alternativa, anche a carico della famiglia che potrebbe fare il tampone e dotarsi di tutti i dispositivi necessari per recarsi in sicurezza all’interno della struttura». Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino