La sfida al cancro del colon anticipando le ricadute

Sara Lonardi, padovana, responsabile dell'Usd Sperimentazioni Cliniche di Fase Precoce e del gruppo Neoplasie Gastroenteriche dell'Istituto Oncologico Veneto
Nonostante l'emergenza sanitaria dovuta alla pandemia lo studio Pegasus è partito, coinvolgendo vari centri di livello nazionale e internazionale. E principal...

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Nonostante l'emergenza sanitaria dovuta alla pandemia lo studio Pegasus è partito, coinvolgendo vari centri di livello nazionale e internazionale. E principal investigator dell'intero protocollo è Sara Lonardi, padovana, responsabile dell'Usd Sperimentazioni Cliniche di Fase Precoce e del gruppo Neoplasie Gastroenteriche dell'Istituto Oncologico Veneto, il centro più grosso d'Italia, ma anche punto di riferimento europeo, a cui ogni anno afferiscono 1.200 nuovi pazienti, che si sommano agli oltre 10mila che sono già in carico, i quali per almeno un decennio continuano a essere controllati.


Dottoressa, in che cosa consiste questa nuova sfida al cancro del colon-retto?
«Pegasus è uno dei primi esempi di applicazione clinica della nuova tecnologia di analisi del Dna tumorale circolante. In pratica, il cancro rilascia nel sangue dei pezzetti del suo, che possono essere identificati perché diversi da quello del paziente, e per intercettarli è sufficiente un prelievo. Identificare questo Dna, quindi, consente di valutare il rischio di ricaduta dopo che la massa è stata asportata completamente dal chirurgo e di decidere che tipo di trattamento post operatorio proporre La biopsia, in pratica, diventa una sorta di microscopio che rivela l'eventuale persistenza di cellule tumorali nel paziente».


E voi oncologi come vi regolate?
«Se riscontriamo la presenza di Dna del cancro, proponiamo il classico trattamento intensivo con due chemioterapici; se invece la biopsia è negativa, suggeriamo un percorso alleggerito con un solo farmaco che si assume per bocca. In questo modo si dà il massimo dell'efficacia ai pazienti ad alto rischio, e il minimo della tossicità agli altri».


Non c'è il pericolo di sottostimare la malattia residua?
«Assolutamente no, perché essendoci un 30-35% di possibilità di non riuscire a cogliere il Dna tumorale che c'è, le biopsie vengono ripetute più volte. E solo nel momento in cui ce ne sono 2 negative, la probabilità che non esistano micrometastasi sale al 90%. Ed è a questo punto che proponiamo ai pazienti un trattamento depotenziato, cioè con un unico chemioterapico».


In pratica, si tratta di cure ad hoc.


«Non abbiamo sempre idea di quali siano i pazienti che hanno bisogno di una chemioterapia perché il loro tumore è destinato a ricadere, e quali invece la farebbero per niente, perché sono completamente guariti grazie all'intervento del chirurgo. La ricerca del Dna del cancro all'interno del sangue, quindi, ci può dire se quel malato ha un rischio maggiore di ricaduta e quindi necessita di cure più intensive, rispetto a un altro che non ha Dna tumorale circolante e quindi ha bisogno di un trattamento più blando».
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Il Gazzettino