Lancio con la tuta alare: il paracadute si avvita, americano salvo per miracolo

TRENTO - Nonostante la morte ieri di una base jumper svedese dopo un lancio dal monte Brento, la passione per lo sport estremo non scoraggia gli appassionati che arrivano da tutto...

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TRENTO - Nonostante la morte ieri di una base jumper svedese dopo un lancio dal monte Brento, la passione per lo sport estremo non scoraggia gli appassionati che arrivano da tutto il mondo in Trentino per provare il brivido di lanciarsi con la tuta alare.


Questa mattina - 16 agosto - un altro base jumper statunitense di 35 anni è stato recuperato dal Soccorso alpino dopo essere rimasto appeso alla stessa parete rocciosa dove ieri ha perso la vita la 30enne scandinava che era con il marito. Analoga la dinamica dell'incidente: secondo una prima ricostruzione, dopo il lancio dalla cima del monte, il Becco dell'Aquila, il paracadute si è aperto e si è avvitato, per cui il base jumper statunitense ha perso il controllo sbattendo contro le rocce e rimanendo appeso alla parete verticale, circa 150 metri sopra lo zoccolo del monte.

Sul posto è intervenuto l'elicottero che ha recuperato il  ferito con il verricello: è stato portato in gravi condizioni in elicottero all'ospedale Santa Chiara di Trento.

Il Becco d'Aquila, nei pressi del lago di Garda, attira da anni appassionati del base jumping da tutto il mondo i quali apprezzano le caratteristiche della parete rocciosa che offre la possibilità di lanci mozzafiato. Ma la montagna trentina è conosciuta anche per la scia di sangue che ha lasciato negli anni. Dal 2000 sono infatti ben 29 i base jumper che vi hanno trovato la morte.


La pratica di questo sport estremo è stata al centro di polemiche: l'emozione provocata dalla morte di un giovane romano nel maggio 2000, sfracellatosi al suolo dopo un volo di alcune centinaia di metri, da lui filmato, aveva convinto il governo provinciale a vietare questo sport estremo. Provvedimento ritirato un anno dopo con l'approvazione di un codice di autoregolamentazione. Secondo la commissione provinciale «non esisteva il necessario supporto normativo per porre un divieto che peraltro risulterebbe discriminante rispetto ad altre discipline estreme ugualmente pericolose». Il codice di autoregolamentazione non è peraltro servito a ridurre il rischio insito in questa pratica sportiva estrema, e di conseguenza il numero delle vittime non è diminuito.
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Il Gazzettino