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Dal banco dei testimoni il sindaco disse che «sarebbe bastata una stretta di mano con richiesta di scuse: sarebbe finita lì». La stretta di mano tra Alessandro Ciriani e Gian Luigi Bettoli non c’è mai stata. Nè prima nè dopo il processo. Lo “scontro” giudiziario tra l’esponente di Fratelli d’Italia e il socio della Casa del popolo di Torre è andato oltre la sentenza di non punibilità dichiarata in primo grado dal giudice Piera Binotto nei confronti di Bettoli, chiamato a difendersi dall’accusa di diffamazione a mezzo stampa e internet. Ciriani ha infatti impugnato con l’avvocato Caterina Belletti la sentenza. E ieri la Corte d’appello di Trieste ha confermato le conclusioni del Tribunale di Pordenone condannando il sindaco a pagare le spese di secondo grado. I giudici hanno ribadito che non c’è diffamazione in un clima di provocazione che ti fa reagire in stato d’ira. E che Bettoli, come ha concluso anche il procuratore generale Carlo Sciavicco e sulla sua scia l’avvocato Bruno Malattia, non è punibile per aver definito il sindaco Ciriani «neofascista».
LA VICENDA
Pordenone era in piena campagna elettorale quando il 26 aprile 2016 sui vetri della Casa del popolo di Torre comparvero dei manifesti con la scritta “Achtung Banditen”.
IL GIUDICE
Per il Tribunale di Pordenone non è punibile chi agisce in un contesto di provocazioni reciproche e ha riconosciuto che ha agito in uno stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui. «Nel caso di specie - aveva scritto il giudice nella motivazione della sentenza - è indubbia la violazione delle regole di civile convivenza, avvenuta sia attraverso l’affissione di volantini anonimi tendenti a delegittimare e intimidire la Casa del Popolo come simbolo dell’antifascismo pordenonese, sia attraverso il silenzio del candidato sindaco Ciriani e della sua lista civica rispetto all’episodio specifico».
LA DIFESA
Ieri l’avvocato Malattia ha ricordato che Bettoli aveva espresso un legittimo diritto di critica politica e che dare del fascista a qualcuno non costituisce un insulto, a dirlo è la stessa Cassazione. Usare il termine nei confronti di un politico non è reato perché si deve ritenere «espressione di una critica politica, aspra, ma del tutto legittima», una sintesi «per paragonare il modo di amministrare la cosa pubblica a una prassi ben nota»: quella del Ventennio. Secondo la Suprema corte, sarebbe invece offensivo dare del «fascista» a un comune cittadino, perché sarebbe come dargli dell’«arrogante e prevaricatore». Malattia ha anche ricordato come, durante l’allora campagna elettorale, nei confronti della Casa del Popolo vi fosse una «situazione di aperta e condivisa aggressione» generando un «clima tale da giustificare uno stato d’ira». I volantini l’anno precedente erano stati preceduti da striscioni come «25 aprile lutto nazionale», affisso il giorno della Liberazione, o «Prendeteveli a casa vostra» riferito ai migranti. Fino a quell’Achtung Banditen di hitleriana memoria. Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino