La decrescita felice porta alla dittatura della povertà

La decrescita felice porta alla dittatura della povertà
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Caro direttore,

in un'Italia alle corde, dove la crisi economica sta travolgendo sempre più persone, famiglie e aziende, dove delinquenza, violenza e corruzione si confrontano quotidianamente con i privilegi più sfacciati, non sento più parlare di quella "decrescita felice" che tanti proclamavano essere una valida panacea contro i mali del nostro tempo. Forse si sono resi conto che non basta la diminuzione del Pil per ritornare a una vita più serena e confortevole e che la scienza economica non può essere ridotta a formule matematiche o a calcoli ragionieristici. Quello che appare evidente, al contario, è che senza un'efficace e valido sviluppo della nostra ricchezza nazionale non ci sarà una facile via d'uscita a questo costante impoverimento del Paese, con tutte le tristi conseguenze che quotidianamente ci vengono illustrate, quando la fette della "torta" da distribuire diventano briciole.




Vittorio De Marchi

Albignasego (Pd)



Caro lettore,


con tutto il rispetto per l'economista francese Serge Latouche e i suoi estimatori come l'italiano Maurizio Pallante, la decrescita felice, prima ancora che una contraddizione in termini, è un'inquietante suggestione che ha l'ambizione di guarire i mali del mondo e, nel contempo, fornire un paracadute teorico agli orfani del marxismo e delle elaborazioni neo-marxiste. La decrescita felice non si propone infatti come semplice "idea", ma come una vera e proprio ideologia, una visione del mondo e della vita, individuale e collettiva, da esportare a livello globale. "L’uomo – è il punto di partenza del pensiero di Latouche – dovrebbe porre un freno ai propri desideri e godere di quello che ha". Si può naturalmente concordare o dissentire con questa visione un po' penitenziale e masochista dell'esistenza, ma al di là di ciò, andrebbe spiegato come questo egualitarismo al ribasso si possa applicare indistintamente a tutti gli esseri umani, dai cittadini di New York o del centro di Milano a quelli delle periferie delle megalopoli sudamericane o dell'Africa centrale. Quale sarebbe infatti, secondo Latouche e i suoi estimatori, il punto di caduta degli "umani desideri" accettabile e adeguato ad ogni latitudine? In realtà la decrescita felice non è che l'ennesimo tentativo ideologico di "rifare l'uomo", imponendogli una "morale", che ne violenta nei fatti la libertà individuale. Ma il punto d'arrivo di questa "religione economica" sarebbe un impoverimento complessivo, umano ed economico: una sorta di dittatura della povertà, variabile moderna e aggiornata della dittatura del proletariato. La strada credo sia un altra: far tesoro della crisi di questi anni per immaginare e impegnarsi a costruire uno sviluppo più sobrio, sostenibile e compatibile con le risorse esistenti. Senza però pretendere di ingabbiare l'essere umano in ideologie che ne frenino ambizioni, volontà e desideri. Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino