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Gentile direttore,
fino a qualche decennio fa quando eravamo tutti poveri ma forse più assennati e la scienza non era ancora business si accettava che, dopo una certa età, la vita finisse; non si parlava a 85 anni, spudoratamente, di causa di morte ma si diceva molto giustamente e semplicemente: è morto di vecchiaia. E dietro a questo non c'era ignoranza ma solo buon senso perché si accettava che dopo una certa età (oggi mediamente 80 ma una volta anche 50) la vita finisse. Poteva finire per un'infezione, un infarto, un ictus, una caduta, un coronavirus ma cosa importava saperlo? Se non era uno era l'altro. Poi la scienza medica ha cominciato a fare business sulle malattie incurabili e sulla vecchiaia proponendo grandi studi e cure accanite e amplificando la naturale e comprensibile istanza umana di vivere più a lungo possibile. Ora però il boomerang lanciato verso l'immortalità sta tornando indietro e gli ultraottantenni già gravemente malati non accettano che sia una malattia sconosciuta chiamata Covid 19 a porre fine alla vita, lo sia pure qualche giorno dopo una metastasi del tumore o un ictus, cose contro cui la scienza medica dimostra di accanirsi, ma non deve esserlo una pivellina di malattia contro la quale ancora si deve fare tutto il possibile. E così, via tutti al pronto soccorso per opporsi a questa orribile sciagura! Ora quindi per la necessità di proseguire con l'inganno, la scienza medica deve fermare il mondo per fare vedere alla gente che no, non permetterà che la vita finisca, come 100 anni fa!
Angelo Mercuri
Caro lettore,
non siamo immortali e non dobbiamo commettere il fatale errore di pensare di esserlo.
Il Gazzettino