Omicidio di Serena Mollicone, il criminologo: «La porta non è l'arma del delitto»

Omicidio di Serena Mollicone, il criminologo: «La porta non è l'arma del delitto»
Omicidio di Serena Mollicone: per gli inquirenti la famiglia Mottola (padre, madre e figlio) è stata inchiodata dalle consulenze medico-legali; su tutte quella della...

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Omicidio di Serena Mollicone: per gli inquirenti la famiglia Mottola (padre, madre e figlio) è stata inchiodata dalle consulenze medico-legali; su tutte quella della professoressa Cristina Cattaneo che avrebbe accertato la compatibilità tra la frattura cranica su Serena Mollicone e il segno di effrazione sulla porte dell’alloggio della caserma.

Ma la difesa della famiglia Mottola, rappresentata dall’avvocato Francesco Germani e dal criminologo Carmelo Lavorino, contestano le conclusioni.
«La porta sequestrata nella caserma dei carabinieri di Arce non è l’arma del delitto. La porta è stata ritenuta l’arma del delitto per un’intuizione investigativa e medico-legale basata su un equivoco» ha esordito il criminologo Lavorino.

«La porta - ha aggiunto - non è l’arma del delitto per motivi logici, fisici, chimici e criminologici: 1) la lesione sulla porta, che si trova a 154 centimetri, che gli inquirenti e la professoressa Cattaneo ritengono abbia provocato la ferita sulla tempia di Serena Mollicone, che era alta 155 centimetri, non è compatibile con la nostra ricostruzione. La ferita, infatti, è all’altezza di 146 centimetri (zona sopracciliare) e lo zigomo è ancora più in basso, a circa 140 centimetri; 2) la porta non avrebbe mai potuto avere e produrre quel tipo di lesione in quanto elastica e non fissa; 3) non condivido né le impostazioni e le conclusioni medico-legali, né quelle tecniche e, nemmeno, quello investigative, fra cui, il fatto che i rumori della colluttazione e dell’aggressione siano stati silenziosi».

Aggiunge poi Lavorino: «Qualunque traccia repertata e riferita nella consulenza tecnica dei Ris non fornisce certezza, ma si parla di un certa compatibilità».


C’è poi la custodia delle prove. «I reperti (nastro e porta, ndr) - conclude Lavorino - sono stati esposti per troppo tempo a interventi esterni e hanno viaggiato per mezza Italia. Il dna e le impronte digitali riconducibili all’assassino o ai suoi complici, infine, non sono riferibili a nessuno degli indagati, ad amici di essi o ai familiari». Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino