OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
Tutto il sito - Mese
6,99€ 1 € al mese x 12 mesi
oppure
1€ al mese per 3 mesi
Tutto il sito - Anno
79,99€ 9,99 € per 1 anno
Il 22 maggio 2017 Martin Klibber era al Manchester Arena con sua figlia Eve, 14 anni. Era il regalo che si erano promessi: andare insieme al concerto di Ariana Grande. Alle 22 e 33 mentre si avviano all'uscita, Martin e Eve si trovano davanti Salman Abedi, il terrorista: l'esplosione li prende in pieno, a meno di cinque metri. Martin ricorda tutto: «Intorno erano tutti morti, solo io e Eve vivi». In ospedale, lui subisce 14 operazioni, ne esce con una lesione irreversibile alla colonna vertebrale, non camminerà più. Per Eve i medici sono ancora più pessimisti: difficile che potrà di nuovo vedere, parlare camminare, gli dicono. Sono passati cinque anni. Eve vede e parla, e da qualche settimana ha ricominciato anche a fare qualche passo da sola. Martin invece è salito in cima al Kilimanjaro.
Inghilterra, moglie di un terrorista Isis libera e in una casa da oltre mezzo milione di euro
GLI AMICI
Ci è arrivato lunedì scorso, con una sedia a rotelle fatta apposta, accompagnato da un gruppo di amici, e dalle due infermiere che lo hanno seguito dopo l'operazione. «Quando ho riaperto gli occhi dopo l'attentato mi sono trovato una montagna da scalare davanti» dice oggi. Quella montagna l'ha scalata: ha dovuto superare la disperazione di essere ancora in vita, lui e non tutti gli altri intorno, la disperazione per sua figlia, per il suo handicap.
LA PASSIONE
Lo sport per Martin è anche il lavoro: fa l'agente di calciatori. E' l'attaccante dei Reds Marcus Rashford, al centro di una campagna per la gratuità delle mense scolastiche per le famiglie in difficoltà, che lo ha ispirato: «Io voglio cambiare la vita delle persone con disabilità, se alla fine arriverò a raccogliere un milione di sterline, non sarà comunque abbastanza». Hibbert è rimasto a vivere a Chorley, nel Lancashire. In cima al Kilimanjaro ha portato anche una foto di Eve: «È la mia principessa. Le ho detto che quando anche lei avrà finito di scalare la sua montagna, e ricomincerà a camminare, sarà d'ispirazione per tutto il mondo».
IL RACCONTO
Martin ha raccontato alla Bbc di essere sceso dalla montagna sentendosi «molto orgoglioso» e «una persona diversa», ma quando è arrivato in vetta, (gli ultimi metri è riuscito a spingersi da solo) in compenso non sapeva cosa provare: «Avevo voglia di piangere e ridere insieme». Alla fine ha ballato di gioia. L'impresa non è scontata nemmeno per gli scalatori: uno su tre di quelli che cominciano rinuncia. Adesso Martin continuerà a lavorare per la Spinal Injury Association: «La cosa contro cui ho lottato di più, all'inizio, non era la mia condizione fisica, non era non poter più camminare, era questa domanda lancinante: perché sono sopravvissuto? Perché io? Tutti quelli che erano vicini a me sono morti quella sera, perché io no? Poi mi sono detto che dovevo superare, che non c'era risposta a questo perché, che dovevo dare un senso al fatto che ero sopravvissuto, che dovevo essere utile a qualcosa, ed eccolo questo qualcosa: cambiare le mentalità sull'handicap».
Leggi l'articolo completo suIl Gazzettino