PADOVA - E l’incantesimo non si spezza. Gli Yes, oggi, possono essere il chitarrista storico Steve Howe, pelleossa...
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Gli Yes, oggi, possono essere il chitarrista storico Steve Howe, pelleossa quasi 70enne, gli occhi persi nel vuoto, ma le mani salde sulle corde, e il giovanottone americano Billy Sherwood, sostituto di Chris Squire, molto deciso al basso. Due figure di estrazione lontana ma che si fondono perfettamente nel riprodure - solo un momento irrobustite - le armonie prog dei Settanta e degli Ottanta. Poi l’inossidabile White alle pelli e - molto atteso - l’etereo Davison, il nuovo cantante, dotato di un timbro assai simile a quello di Jon Anderson e che tuttavia non ne è clone.
Bella serata, domenica, a PalaGeox di Padova, dove gli Yes hanno eseguito per intero "Drama" e "Fragile" e qualche altra chicca e raccolto meritati consensi. In apertura un tributo a Chris, scomparso l’anno scorso. Quindi l’album che nel 1980 fu la pietra dello scandalo perchè Howe, Squire e White ingaggiarono Geoff Downes e Trevor Horn ovvero il duo pop Buggles. Menzione per "Does it really happen?" e "Into the lens". Prima della pausa "Tempus fugit" si lega curiosamente (o volutamente?) sul tema del tempo che fugge a "Time and a word", dedicata all’altro caduto, Peter Banks. Tocca a "Fragile", pietra miliare del genere, e a "Roudabout", accolta da un’ovazione.
In "Long distance runaround" convincente assolo di Sherwood; in "Mood for a day" impeccabile prova acustica di Howe. Per il bis "Starship trooper", con i fan a battere le mani sotto il palco.
Yes dunque sempre maestri del Barocco, con - se ci è permesso - due pennellate da rivedere: una "Owner of the lonely heart", da rendere con colori più accesi e un Davison da incoraggiare in quanto a comunicativa: un "grazie" e un "buonasera" nell’arco di 2 ore e mezza sono un po’ poco. Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino