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Donne, du du du. Vincono ancora le donne che parlano di donne. Il segnale non è più occasionale. Così dopo “Nomadland” (e con la parentesi cannense di “Titane”), è la volta di Audrey Diwan, francese, anche lei al secondo film, come Julia Doucournau, quindi anno della Francia. Il film si chiama “L’événement” e parla di una ragazza che non può abortire legalmente nel suo Paese nel 1963. Il suo è un calvario crudele, il film è bello, contiene almeno un paio di scene che mettono i brividi (con una bravissima Anamaria Vartolmei protagonista), ma forse il Gran Premio era un riconoscimento più azzeccato, contando come due grandi registi (e sceneggiatori) come Paul Schrader e soprattutto Pablo Larraín per l’ennesima volta tornano a casa a mani vuote. E volendo anche Stéphane Brizé, un altro che alle giurie piace poco. Le donne si portano a casa anche regia, sceneggiatura, opera prima. Il Gran Premio ci dice che l’Italia non ne esce male, ma che alla fine in mezzo alla soddisfazione, spunta un po’ di delusione. Su Sorrentino si sono rincorsi per giorni, si direbbe perfino da prima ancora che iniziasse il festival, le voci come vincitore, poi si sa che anche qui finisce spesso come nel conclave papale, e di papi Sorrentino se ne intende. Il Gran Premio a “È stata la mano di Dio” è un giusto apprezzamento per il film più sincero, più personale e meno esibizionistico del regista napoletano.
Gli americani sono i grandi sconfitti. Avendo vinto tre degli ultimi quattro Leoni non possono certo tornare a casa rimproverando alla giuria distrazioni. Ma nell’anno del ritorno delle star, forse qualcosa speravano di portarlo a casa, Schrader in testa. Il premio alla regia a Jane Campion si accetta, ma il film è un concentrato di bucoliche atmosfere, ritmo sonnolento e mood dolente. Giusto riconoscere la migliore attrice in Penélope Cruz, per il film di Almodóvar, anche se è veramente strepitosa in un altro film in Concorso, la pur sopravvalutata commedia “Competendia oficial”. Sul miglior attore al filippino John Arcilla per il fluviale, scatenato “On the job: the missing 8” si può dire che è bravo (ed è il contributo asiatico del presidente coreano Bong), ma che Vincent Lindon in “Un autre monde” e Toni Servillo in “Qui rido io” lo meritavano di più. Sceneggiatura all’esordiente Maggie Gyllenhaal per “The lost daughter” da Elena Ferrante anche boh, c’era molto di meglio. In definitiva è un verdetto che accontenta così così, ma non scontenta troppo.
La 78ª Mostra di Venezia lascia un buon ricordo del Concorso, decisamente superiore a quello dell’anno scorso, con film di qualità medio-alta, solo qualche film generosamente inserito, tipo quello scostante di Michel Franco e quello effimero di Ana Lily Amirpour, già miracolata a Venezia qualche anno fa. Non altrettanto è andata bene, e lo si dice con dispiacere, con gli afflussi e accrediti. Ciò che l’anno scorso aveva garantito alla Mostra applausi per un’impeccabile organizzazione in tempo di pandemia, quest’anno si è sorprendentemente ribaltato: le polemiche, soprattutto nei primi giorni, sull’impossibilità di accedere alle proiezioni da parte degli accreditati ha reso la vita difficile a moltissimi. Si è commesso probabilmente un errore vistoso di valutazione: più accreditati, più pubblico, più film, stesse sale opportunamente dimezzate nella capienza. Su questo la Biennale dovrà interrogarsi. Lasciamo il Lido per la seconda volta, accompagnati da green pass, mascherine, hub per i tamponi, in un clima di necessaria sicurezza. Speriamo sia davvero l’ultima volta. Ma purtroppo non siamo dentro lo schermo, dove regna la finzione.
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