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Ci sono eventi che hanno cambiato il corso dell’umanità: la scoperta dell’America, la Rivoluzione Francese, lo sbarco sulla Luna, tanto per citarne alcuni. Il più tragico non è molto indietro nel tempo: è datato 6 agosto 1945. Hiroshima, Giappone: la prima bomba atomica sganciata su una città. La bomba atomica, almeno come presenza possibile, è diventata la minaccia totale, l’armageddon per tutti in un finale senza vinti, né vincitori. Ne è consapevole J. Robert Oppenheimer, che di quell’arma fu il padre (con tanto di copertina su “Time”), fisico talentuoso, che al momento del grande esperimento nel New Mexico e all’indomani dello sganciamento sul Giappone, è colto dal senso di colpa, da quell’ambiguità che attraversa a volte il confine impreciso tra bene e male, tra il successo della scienza e la brutalità militare.
Christopher Nolan forse dirige il suo film più riuscito, probabilmente il meno contorto e palesemente condizionato da architetture temporali e narrative, da warmhole e giochi di prestigio (non a caso “The prestige” resta uno dei suoi lavori migliori), da desiderio di incantare e pervicacia, spesso stucchevole, di infastidire.
“Oppenheimer”, tratto dalla biografia di Kai Bird e Martin J. Sherwin e scritto dallo stesso regista, dura tre ore, mai monotone, nelle quali l’andirivieni nel tempo (sono tre i momenti salienti, due a colori, uno in bianco e nero) è aderente a una narrazione sincopata, resa tellurica a tratti dal montaggio serrato e ansiogeno di Jennifer Lame, tra lo spazio galattico del cielo stellato e la stanza claustrofobica del processo, tra le potenti esplosioni (la più importante dominata da un bel cut sonoro) e le tenebre della coscienza (magnificamente fotografate da Hoyte van Hoytema), le vicende personali di un uomo complesso (il controverso rapporto con la moglie – Emily Blunt) e quelle pubbliche di una corsa per alcuni inconsapevole agli armamenti.
Cillian Muprhy è un perfetto Oppenheimer, con il suo volto spigoloso e fragile, lo sguardo sulle stelle, ma più spesso nel vuoto: raccoglie l’istinto di uomo capace di capire più gli atomi degli umani, scosso dal suo stesso sapere e da un Potere atroce e insensibile. Attorno a lui e al progetto Manhattan nel deserto di Los Alamos gira una ronde di personaggi che alimentano una storia a dir poco beffarda per il singolo e malvagia per l’umanità: l’ambizioso e subdolo Lewis Strauss (Robert Downey jr.), il verace generale Groves (Matt Damon), il Niels Bohr di Kenneth Branagh, l’Einstein di Tom Conti.
Nel secolo dove la scienza e l’arte (Picasso, Stravinsky) destrutturano la loro forma, la scienza va di pari passo, ma non è un caso che questo grande, potente film si apra e si chiuda nel segno della Morte (di una stella, di una popolazione), con un’ultima inquadratura sulla Terra avvolta dal Male, speriamo non profetica, perché in fondo l’umanità è come Leonard Shelby, il personaggio del noliano “Memento”, incapace di ricordare. Voto: 8.
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Il Gazzettino