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C’è una giovane donna al volante, che presto sapremo chiamarsi Diana, che gira per le strade di Roma e si ferma in un prato dove altre persone stanno alzando gli occhi al cielo: nella capitale va in scena un’eclissi solare totale, il buio si impadronisce della città. Diana guarda in alto senza protezione e buon per lei questo le provoca solo fastidio alla retina. Ma la cecità è solo rimandata: quello che non può il temporaneo buio solare, riuscirà a ottenerlo un incidente stradale. Nel frattempo una giovane escort si accomiata in hotel dal suo maturo cliente, ma appena uscita dalla hall viene assalita da uno sconosciuto che le taglia prepotentemente la gola. A Roma si aggira da tempo un serial killer che uccide le prostitute. Diana diventa presto un suo bersaglio. Assieme a Chin (sic), bambino cinese illeso della coppia morta nello stesso incidente stradale, cercherà di sfuggire al maniaco assassino, aiutata da un’istruttrice per non vedenti, due maldestri poliziotti e un cane. A dieci anni da “Dracula 3D”, Dario Argento torna alla regia frantumando quel poco che resta ormai di ogni credibilità narrativa, di per sé poco essenziale in un thriller/horror e spesso, da sempre, nel suo cinema. E se dal suo sguardo talvolta affiora la lucidità dei giorni migliori, come accade nel finale nella campagna, dove anche la natura diventa un pericolo, l’operazione non si discosta dal fallimentare percorso intrapreso dal grande, insostituibile regista, che almeno fino a “La sindrome di Stendhal” era in grado di lasciare il segno, abbandonandosi poi a un delirio creativo capace solo di disintegrare la sua meritata fama. Qualcuno troverà “Occhiali neri” in ascesa di soddisfazione, dopo cose tipo “Giallo” e appunto “Dracula 3D”, ma ancora una volta la sensazione è che tutto continui a essere approssimativo, casuale, quando non scopertamente ridicolo (non solo nella scena del biglietto da visita a un personaggio cieco, ma in diverse circostanze, compresa la puzza del maniaco), senza l’idea che tutto questo sia deliberatamente cercato, in un’architettura demolitrice che sappia conservare raramente solo l’effetto visivo appagante. E anche volendo ignorare tutto di un film che ignora tutto, aggrappandosi all’istinto di una messa in scena griffata, alla voracità di uno sguardo che sfiora l’abisso di ogni verosimiglianza (e questo non sarebbe un male), il risultato è una intermittente galleria situazionistica di fervori e lampi, che vivono da sé e per sé, in un “profondo nero” che resta tale. Orfani dell’Argento superlativo che tutti abbiamo amato, c’è chi ha voluto vedere in questa operazione il senso (o la speranza) del ritrovamento di un autore fondamentale del nostro cinema, ma nel cinema di Dario Argento l’eclissi è ancora in atto. Voto: 4,5.
PROCESSO PER STUPRO - “Les choses humaines”, a firma Yvan Attal, attore regista di origine israeliana. racconta la denuncia di stupro della giovane Mila da parte del coetaneo Alexandre, la cui madre separata oggi è la compagna del padre della ragazza. Diviso sostanzialmente in tre parti (Lui, Lei, il processo) porta in scena l’ambiguità della verità, in un ambiente sociale borghese e istruito, sfruttando ogni luogo comune, dalla composizione delle famiglie alle testimonianze del caso, per mostrare come il confine della certezza spesso sia fortemente nebuloso. Soprattutto la parte dibattuta in aula è interessante, ma forse il film avrebbe potuto mantenere comunque l’incertezza di un verdetto, che invece viene esplicato, anche se era evidente fosse quello con tutta probabilità: meglio era mettere la parola “fine” di fronte a quella porta che si chiude, dove dentro solo i due ragazzi sanno cosa sia veramente accaduto. Voto: 6,5.
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