Il melò straziante e spiazzante di Brizé La Vita tragica di Jeanne lascia il segno

Il melò straziante e spiazzante di Brizé La Vita tragica di Jeanne lascia il segno
Ci sono film sui quali scommetteresti poco, sbagliando: “Una vita”, passato all’ultima Mostra di Venezia,...

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Ci sono film sui quali scommetteresti poco, sbagliando: “Una vita”, passato all’ultima Mostra di Venezia, dove assurdamente è stato totalmente ignorato dalla giuria, è uno di questi. Partendo dal romanzo omonimo di Guy de Maupassant (mai facile da trasferire sullo schermo), il suo primo, il regista francese Stéphane Brizé (di lui si ricorderà il recente “La legge del mercato”, con Vincent London premiato a Cannes) racconta la storia di Jeanne (Judith Chemla, sicuramente meritevole dell’ultima Coppa Volpi, puntualmente trascurata a favore della più cool Emma Stone), una donna che attraversa la vita tra tribolazioni e dolorose delusioni, umiliata dai due uomini che ha amato, marito prima e figlio poi, cocciuta nel non arrendersi a una realtà odiosa o forse solamente incapace di comprenderla, nella sua infinita innocenza e ingenuità.
Siamo nella prima metà dell’800 in un ambiente nobiliare, la cui decadenza progressiva è figlia dei tradimenti e delle inettitudini maschili. Siamo dentro a un melò torbido, feroce, angosciato. Brizé opta per un formato 4/3 con inquadrature strette per mostrare il soffocamento della storia sulla protagonista, sovente con camera a mano: non le dà mai tregua, nemmeno nel momento, uno dei pochi, di ipotetico maggior piacere, perché la prima scena di sesso, bellissima, è quasi un patimento.  
C’è un’abilità non comune nel dettare i tempi del racconto, con un elastico appropriato, dilatando e riducendo le azioni, giocando in modo magistrale sulle ellissi: la migliore chiude in pochi secondi un fatto di sangue, su cui altri ci avrebbero girato almeno 5-10 minuti, ma da brivido assoluto è la frenetica, disperata corsa nei campi di notte, subito dopo la scoperta dell’adulterio. In entrambi i casi Brizé toglie tutto quello che non serve, lasciando solo la reazione nuda e violenta. La narrazione vive così un percorso a strappi drammatici, mentre lo spiazzante montaggio di Anne Klotz popola lo schermo con disconnessioni improvvise rispetto alla parola, non solo temporali, ma anche emotive, passando dal buio funereo di un “presente” alla luce incandescente di ricordi o immaginazioni. Tutto questo imprime un impatto appassionato nel seguire la tragica esistenza della protagonista, in un racconto al tempo stesso trattenuto ed esplosivo. Grande film.
Stelle: 4


I FIGLI DELLA NOTTE SI PERDONO NEL BUIO -  Figlio di Manuel e nipote di Vittorio (dal pedigree praticamente imbattibile, quindi), Andrea De Sica si porta tra le montagne dell’Alto Adige, in un collegio per figli di ricchi industriali, dove Giulio, un ragazzo dal viso angelico, si trova a dover fare i conti con quella che è una prigione di lusso, non esente da pericoli, incubi e desideri. L’esordio esageratamente ambizioso di De Sica, che vorrebbe coniugare Lynch e Bellocchio, Kubrick e film di genere, con un citazionismo che si ferma all’apparenza dell’immagine e che a tratti si fa perfino sfacciato, rincorre il desiderio del romanzo di formazione, senza curarsi tuttavia troppo che la progressione narrativa giustifichi azioni e comportamenti, e soprattutto crei un percorso significativo delle psicologie dei personaggi (si pensi alla “sorprendente” scena finale). Il problema principale è la scrittura che non sorregge un materiale così accatastato di avvenimenti, senza approfondirne sul serio alcuno (la vita del college, il possibile coinvolgimento omosessuale, la capanna del peccato, l’amicizia intima di Giulio con Edoardo, il più audace e misterioso dei compagni). Ma non è l’unica perplessità. Se è lecito ritenere che l’operazione possa essere coraggiosa, nel panorama stagnante italiano, è anche vero che l’azzardo è mal calcolato, con dialoghi didascalici e artefatti, un’interpretazione generale piatta e un situazionismo che si accontenta di un certo esibiziosimo estetico (comunque di una certa qualità). L’assenza dei genitori è chiaramente sintomatica dell’abbandono (della mamma di Giulio arriva soltanto la voce dal cellulare), ma le figure di contorno (compagni, insegnanti, frequentatori di escort) sono piuttosto marginali e fuori fuoco. Insomma è un’opera prima e di questo si tenga conto, ma non si può nemmeno voler scalare subito l’Everest, essendo attrezzati per arrivare soltanto al primo campo base.
Stelle: 2
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Il Gazzettino