Detroit, la Bigelow mostra l'America di ieri che sembra ancora quella di oggi

Detroit, la Bigelow mostra l'America di ieri che sembra ancora quella di oggi
Si potrebbe dire ancora una volta che a Kathryn Bigelow interessi raccontare i meccanismi che spingono i comportamenti umani a...

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Si potrebbe dire ancora una volta che a Kathryn Bigelow interessi raccontare i meccanismi che spingono i comportamenti umani a deragliare nei pericolosi percorsi della violenza e non uno scenario complessivo e storico nel suo svolgersi, catturarne l’ossessione e la paranoia, cause più degli effetti. Il teatro resta sempre la guerra, almeno da “K-19” in poi, toccando le iperboli magnifiche di “The hurt locker” e “Zero dark thirty”, anche se qui il campo si restringe alla guerriglia urbana di una sola città (e quindi un “conflitto” tutto americano: ma non era, in definitiva, così anche in precedenza?). Siamo a Detroit, capitale industriale dell’auto, nel luglio 1967, un paio di anni dopo l’assassinio di Malcom X e qualche mese prima di quello di Luther King, al tempo della rivolta black esplosa dopo l’irruzione della polizia in un locale frequentato da neri che costò inizialmente la morte a tre giovani afroamericani e successivamente, in una brutale escalation di scontri, ad altre 40 persone.
Sezionando il film in tre grandi blocchi narrativi e aderendo ogni tanto a immagini di repertorio che si confondono con la finzione, la Bigelow introduce nel primo il clima di incertezza sociale e tensione non più sotterranea e nell’ultimo chiude i conti con la fase processuale, nella quale le forze dell’ordine sono chiamate a rispondere della ferocia con cui quale hanno assolto i loro compiti. Ma è il corpo centrale, al quale la quasi 66enne regista californiana dedica più della metà delle due ore e un quarto totali, la forza motrice degli eventi, lo scandaglio puntiglioso e veemente di come il pensiero malato di una società impostata sulla dominazione del più forte venga rappresentato dall’esercizio di potere di pochi vigliacchi nelle stanze di un motel, in uno sconvolgente gioco perverso e crudele di sconfinamento continuo tra finzione e verità. Qui la Bigelow, come nei film precedenti, costruisce una ermeneutica del terrore dalla tensione insopportabile, spaventosa nell’aggressività verbale e fisica: un thriller della sopraffazione (anche psicologica) del più debole, che non può non culminare nella tragedia.

Girandola con la sua consueta muscolare, tellurica rilevanza della camera a mano, capace di disegnare un caos incontrollato, la Bigleow non consuma la lotta in un manicheismo sfrenato, ma ne coglie ambiguità e trasversalità, pur in uno schematismo quasi obbligatorio, ma soprattutto la totale disillusione di chi ha creduto (e crede tuttora) che i diritti civili siano una conquista accettata. Di fronte all’esito del processo il pessimismo è totale, sia riguardo al passato, quando il ragazzo dal talento canoro si estranea volontariamente dalla possibilità di successo e il vigilantes comprende il proprio fraintendimento sull’integrazione sociale; ma soprattutto al presente, perché l’America di Trump è, ora come allora, ancora questa. Nonostante 8 anni di Obama.
 
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Il Gazzettino