Cannes 71, giorno 7. Poca Euforia per Valeria Il ritorno di Lars, il vero serial-killer

Cannes 71, giorno 7. Poca Euforia per Valeria Il ritorno di Lars, il vero serial-killer
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EUFORIA di Valeria Golino (Un Certain regard) – Matteo è un giovane imprenditore brillante e gay. Suo fratello Ettore è un professore, al contrario, riservato e introverso. L’improvvisa grave malattia di quest’ultimo riavvicina i due, cercando un’intesa non sempre facile. Dopo “Miele”, la Golino affronta nuovamente il tema della morte (stavolta nella chiave opposta), in un racconto familiare che fatica a trovare una forza continua dentro ai temi principali della fratellanza, malattia, omosessualità, con un po' troppe terrazze e una convivialità alla Ozpetek. La sceneggiatura non sempre aderisce alla storia con quella immediatezza che servirebbe e il film, per lunghi tratti, resta avvincente per la prova attoriale di Scamarcio, che è Matteo. Se Mastandrea (che è Ettore) conferma la sensazione di stabilizzarsi troppo su personaggi dall’indole ripetitiva, il film alla fine è piuttosto irrisolto, nonostante il tentativo di un finale poetico, ma anche abbastanza semplice.. Voto: 6.
NETEMO SAMETEMO di Ryusuke Hamaguchi (Concorso)
– La giovane Asako si innamora di Baku, un ragazzo che non ama i legami, tanto da sparire all’improvviso. Trasferitasi da Osaka a Tokyo, Asako incontra Ryohei, che assomiglia in modo sorprendente a Baku, che nel frattempo diventa una star e ricompare nella vita di Asako, che a questo punto non sa più chi scegliere. La commedia sull’amore e sulla sua illusione di Hamaguchi accende qualche bagliore rohmeriano (fatta la diversità di continente) e sul tema del doppio resta su un filo leggero di contraddizioni e incertezza. Ma il film non decolla mai e si gioca le carte migliori dopo oltre un’ora. Voto: 5.
BLACKKKLANSMAN di Spike Lee (Concorso)
– Il detective afroamericano Ron Stallworth si infiltra nel gruppo del Klu Klux Klan, per smascherarlo. Traendolo dal romanzo dello stesso detective, Spike Lee costruisce una commedia sarcastica, che specie nella prima parte ha radici coeniane e fa della beffa la sua ragione di interesse. Ritmo travolgente, battute pungenti, una tensione sempre pronta a esplodere (nel nucleo di polizia, all’esterno i ruoli vengono scambiati). Lee diverte e accusa, mostra un’America ieri come oggi (il racconto di Harry Belafonte, gli inserti nel finale degli ultimi incidenti contro i black, le sparate di Trump) incapace di reggere il diritto alla uguaglianza. Forse non sempre tutto quadra in una sceneggiatura che tocca tanti registri e forse Spike non ha più quella lucidità artistica di un tempo, ma il film, tra quelli direttamente politici sulla Croisette, è uno dei più interessanti nel Concorso. Voto: 7.

THE HOUSE THAT JACK BUILT di Lars Von Trier (Fuori Concorso)
– Il ritorno del regista “non grato” al festival sette anni dopo le esternazioni pro Hitler, porta a Cannes la sua ennesima provocazione intellettuale sul tema della violenza e del desiderio di uccidere attraverso un’opera che ripete stancamente ormai le sue ossessioni. Il suo cinema è diventato da tempo una personale seduta di autoanalisi, che il regista potrebbe affrontare senza chiedere l’intervento dello spettatore, che lui tratta come Jack, il protagonista serial-killer del film, si comporta con le proprie vittime. Racchiuso in una ormai consolidata architettura pindarica, piena di digressioni dall’arte alla produzione del Sauternes, in cui la saccenteria del regista danese trova orgogliosa dimostrazione (non priva di banalità, come la metafora dell’agnello), è la storia di Jack, che si diverte, non senza una mirabile tortura psicologica e grottesca, ad ammazzare e fare a pezzi le sue vittime. Normalmente misogino (tutte le vittime iniziali sono donne, prima che il conteggio assuma numeri vertiginosi), Von Trier mostra il disprezzo assoluto per le vittime, i cui corpi (compresi quelli di bambini) sono soggetti al macello divertito del protagonista, dimostrando come spesso siano proprio queste vittime a fare di tutto per essere uccise, anche per stupidità. Giocato con un dialogo interiore con Verge (Bruno Ganz che appare nel finale), si dimostra alla fine un viaggio infernale, con tanto di rappresentazione evidente, che dovrebbe secondo molti ribaltare il giudizio. Matt Dillon dà una luce luciferina al suo Jack, e certo il talento risaputo di Von Trier ogni tanto affiora, ma ormai il suo cinema serve probabilmente più a lui che non allo spettatore. E comunque più che il disgusto per certe scene, vince la noia. Voto: 3.
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Il Gazzettino