Catalogna, la strategia attendista di Rajoy

Sabato 7 Ottobre 2017 di Lucio Sessa
Mariano Rajoy, il taoista galiziano», titolò El País alla vigilia delle elezioni del dicembre 2015, azzardando l’ipotesi che avrebbe potuto rivincere nonostante lo scarso carisma e a dispetto degli scandali che avevano colpito il suo partito. La definizione di “taoista” era dovuto al fatto che usava sedersi sulla riva del fiume ad aspettare che passassero i cadaveri dei suoi avversari. In realtà, l’ipotesi del quotidiano spagnolo non si realizzò nell’immediato, ma successivamente, e in modo ancora più “taoista”. Infatti, in quelle elezioni il Partido Popular di Rajoy perse molti voti, pur rimanendo il primo partito di Spagna, a vantaggio di Ciudadanos, un partito nuovo e centrista, il contraltare di Podemos nel campo moderato. Solo che di dare i suoi voti a Rajoy per la formazione di un nuovo governo moderato, Albert Rivera, leader di Ciudadanos, non aveva alcuna intenzione, e non solo perché si poneva come una formazione «nuova e incorrotta» e perché pescava nello stesso bacino elettorale del PP, ma anche a causa dei suoi pessimi rapporti personali con Rajoy. 

Come andarono le cose poi è noto: Podemos oppose il gran rifiuto alla nascita di un governo a guida socialista, e dopo sei mesi di stallo, in cui governò l’esecutivo Rajoy in qualità di governo uscente, ci furono nuove elezioni nel giugno del 2016, che «naturalmente» furono vinte dal “taoista galiziano”, col partito di Rivera ridimensionato e “costretto” a fare la pace con l’avversario e a dargli i suoi voti per formare un governo di minoranza, grazie all’astensione dei socialisti. Rajoy vinse perché rassicurava la Spagna in crisi istituzionale, e perché il cambiamento non aveva saputo diventare proposta politica. Successivamente Rivera negò di avere cattivi rapporti con Rajoy, anche se aggiunse: «Quel che un po’ mi dà sui nervi è che io sono un uomo d’azione, mentre lui preferisce aspettare». Adesso Rivera sta premendo su Rajoy affinché prenda l’iniziativa e applichi l’articolo 155 della Costituzione, col conseguente commissariamento della regione catalana. Non ha ancora capito con chi ha a che fare. E da perfetto attendista Rajoy si è comportato con la questione catalana, lasciando tutte le mosse ai suoi avversari, finché questi non si sono rinchiusi da soli in un angolo. 
Ma sulla questione catalana, in precedenza, era stato tutt’altro che attendista. In un articolo scritto sul quotidiano conservatore ABC, il 6 febbraio del 2005 – quando era all’opposizione del governo socialista di Zapatero – scrisse un articolo di fuoco contro il nuovo Statuto di autonomia catalano, allora in gestazione. «Io credo nella Spagna e metterò tutta la mia volontà e tutta l’energia del mio partito a difesa della nazione. La Spagna è una realtà ostinata che nessuno potrà cambiare».

Rajoy temeva che il governo Zapatero approvasse lo Statuto, cosa che in effetti avverrà l’anno seguente, ma solo dopo averlo smussato, in un’interminabile negoziazione, al punto che lo statuto, così sfrondato, non piacque ai catalanisti radicali di Esquerra republicana (attualmente al governo con Puigdemont) che infatti votarono contro nel parlamento di Madrid, ma senza impedirne l’approvazione. Da quel momento, Rajoy non si è dato pace, e nonostante i problemi del Paese e la terribile crisi del 2008, particolarmente dura in Spagna, non si è tolto dalla testa lo Statuto catalano, che tanto estremo non era, in quanto frutto di mediazioni prima all’interno del governo catalano – e all’epoca gli indipendentisti all’interno del govern erano un’esigua minoranza – e poi col governo centrale. 

Ma per Rajoy era inaccettabile e cominciarono i ricorsi alla Corte Costituzionale, finché questa non li accolse, nel 2010, a stretta maggioranza, espungendo gli articoli più significativi, alcuni dei quali presenti negli statuti di autonomia di altre regioni. È a partire da quel momento che la questione si incendia e si radicalizza, anche perché nel 2011 Rajoy tornerà al governo. Ora, perché Rajoy si è impegnato così tanto nella vicenda, facendone un cardine della sua opposizione al governo Zapatero? Rubalcaba, ex segretario del partito socialista, l’ha accusato di «catalanofobia esacerbata», ma forse non è questo il punto.

È che Rajoy rappresenta la Spagna tradizionale, e ha definito la corrida «una forma d’arte radicata nella storia spagnola», mentre la Catalogna l’ha abolita nel 2010, e naturalmente l’immancabile Corte Costituzionale (sarà il caso di ricordare che i giudici della Consulta sono per dieci dodicesimi di nomina politica) ha abolito il divieto nel 2016 definendola un «bene culturale». Naturalmente neanche la corrida è il problema, ma solo il simbolo di una contesa fra tradizionalisti e progressisti. Zapatero rappresentava i sostenitori di una Spagna «plurale», Rajoy quelli della «Spagna eterna», solo che adesso la contesa ha preso sentieri impropri in cui si mescolano acque torbide, ed è finita nelle mani di indipendentisti demagoghi, che privilegiano la logica del tanto peggio tanto meglio. Sarebbe il caso di riportarla nei binari di un giusto confronto, di uno scontro duro ma leale tra le diverse anime della Spagna, una delle quali è legittimamente rappresentata da Rajoy. Si potrà fare solo attraverso elezioni anticipate sia a Madrid che a Barcellona.
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