Brexit/ Il rischio di una Ue a due velocità

Venerdì 24 Giugno 2016 di Oscar Giannino
Nel Regno Unito lo spoglio dei voti è appena all'inizio mentre scriviamo. Allo stato, tre sole certezze. La prima è che la maggioranza degli ultimi sondaggi - ma non tutti - prevedeva una vittoria della permanenza del Regno Unito nella Ue, sia pur di stretta misura rispetto a Brexit. La seconda è che la conta dei voti è iniziata invece con un lieve vantaggio di Brexit, e un Paese comunque spaccato in due parti quasi uguali. La terza è che i mercati avevano scommesso pesantemente sulla sconfitta di Brexit.

Lo si è visto dagli andamenti di Borsa, con quella italiana che ha guadagnato un pingue 3,7%. La grande finanza non ha dubbi, sul fatto che Brexit comporterebbe gravi ripercussioni sia per l'economia britannica, sia per la stabilità della Ue e dell'euroarea. Ma tale consapevolezza non è emersa con chiarezza nella campagna referendaria britannica. È stata infatti una pessima lotta: livorosa perché ha spaccato in due i conservatori e abbondantemente diviso anche i laburisti (nei risultati dei primi distretti a forte consenso laburista, il Leave vince), e piena di panzane sugli argomenti usati. Ha diviso giovani contro anziani, città contro campagne, redditi alti contro redditi bassi. I tifosi dell'uscita hanno artificiosamente moltiplicato i costi dell'appartenenza alla Ue, annunciato milioni e milioni di profughi e di turchi in arrivo Oltremanica, paragonato i tifosi della Ue addirittura ai nazisti che insultavano Einstein. Gli attacchi agli immigrati hanno avvelenato l'atmosfera. E anche dal fronte opposto, le stime dei 30 miliardi di sterline di buco nel bilancio pubblico in caso di uscita, e di conseguente minor crescita, sono apparse subito esagerate.

In ogni caso, con una vittoria che in ogni caso sembra assai risicata, il problema posto dal referendum resta. Nella politica britannica vedremo cosa succederà al governo Cameron, che andrà come minimo rimpastato ma anche in Europa. Per questo serve riflettere, non alzare la voce. Perché l'Europa non gode certo di buona salute.
Uno degli aspetti più paradossali è che a preferire la Brexit non sono stati solo i suoi sostenitori britannici, l'Ukip di Farage, una bella fetta dei Tories, e una parte degli elettori laburisti dell'Inghilterra profonda, che non compartecipa ai dividendi di banche, finanza e prezzi immobiliari. A casa nostra e in mezza Europa, a volere sia pure a mezza voce la Brexit, si sono aggiunti anche parecchi europeisti spinti, coloro che continuano a sognare una Ue Super-Stato con sempre più politiche centralizzate e dirigiste, malgrado l'evidente stallo di un'Europa che non riesce a darsi nemmeno una comune politica sull'immigrazione. In Italia, Monti e Prodi negli ultimi giorni hanno entrambi ricordato che il Regno Unito ha sempre frenato nei decenni ogni sviluppo europeo, e tutto sommato se ora decidesse di uscire sarebbe un peccato, ma almeno si chiarirebbe una volta per sempre il grande equivoco.
 
Ma, invece di demonizzarla, tentiamo di capire meglio la linea britannica verso l'Europa dagli anni Settanta a oggi. Conservatori e laburisti sin dall'inizio hanno perseguito una linea d'interesse nazionale che affondava le radici in condizioni oggettive, storiche ed economiche. Il Regno Unito ,ancora alla fine del secondo conflitto mondiale, attraverso colonie e Commonwealth, comprendeva quasi un quarto delle terre emerse e un quinto della popolazione planetaria. Il brutale ridimensionamento della sua potenza e l'indipendenza di molte delle sue ex colonie non l'hanno privato né dell'arsenale nucleare, né del diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, né della sua forza straordinaria sulla scena della finanza mondiale. La dottrina europea del Regno Unito rimane scolpita in due famosi interventi della Thatcher: quello a Bruges del settembre 1988, in cui veniva espresso un chiaro no a un'Europa Super-Stato centralizzato, e la preferenza invece per una libera convergenza di Stati in nome del libero mercato e della concorrenza; e il triplice no, no, no pronunciato tra fragorosi applausi alla Camera dei Comuni nell'ottobre del 1990, in cui il no deciso era a una moneta unica realizzata con il pieno esproprio del dovere della politica monetaria non a prendere ordini dai governi, ma a render almeno conto di sé alla politica e a parlamenti eletti.

Col senno di poi, i due pilastri della posizione britannica si sono rivelati così sbagliati? L'evidenza di questi ultimi anni mostra che la Commissione Europea ha cessato da tempo di essere motore d'integrazione, perché sono gli Stati nazionali, a cominciare dal più forte cioè la Germania, a dettare l'agenda. Vale per l'immigrazione, come per l'euro, come per tutto. Ma, se è così, allora le ampie facoltà di deroga alle regole comunitarie strappate negli anni da Londra, più che un sabotaggio all'integrazione europea, hanno espresso una dose di maggior realismo sui suoi limiti congeniti che Londra ha intravisto per tempo, rispetto alle illusioni poi infrante dalla crisi.

Prima del referendum, il Regno Unito già godeva di quattro fondamentali deroghe alle regole europee o opt-out: ovviamente dall'euro; dagli accordi di Schengen, sulla libera circolazione delle persone; in materia di giustizia e affari interni, riservandosi caso per caso di far prevalere il proprio diritto domestico; e sulla Carta dei Diritti Europei, escludendo di poter essere chiamati in giudizio da altri paesi membri davanti alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee. Tony Blair abrogò un quinto opt-out che aveva ottenuto Major, quello relativo al protocollo sociale che tutela il lavoro. E a tutto ciò si aggiungeva il rebate, cioè il rimborso annuale ottenuto dalla Thatcher dal 1984 in avanti rispetto al minor vantaggio che a Uk viene dalla politica agricola comune, la prima voce di spesa dell'Unione.
A queste deroghe David Cameron nel febbraio scorso, nel tentativo di smontare la forza di Brexit , trattando con la Ue ne ha aggiunte altre tre: poter impugnare eventuali misure dell'eurozona che danneggiassero l'economia britannica e la sterlina, visto che Uk può sempre tirarsi indietro rispetto a ogni passo verso una maggiore integrazione; il diritto dei parlamenti nazionali che rappresentassero il 55% dei voti del Consiglio europeo a poter obbligare la Commissione Europea a riesaminare i suoi atti; e la facoltà riconosciuta a livello nazionale di sospendere o limitare l'applicazione del proprio welfare a cittadini di altri paesi Ue residenti o immigrati in Uk.

L'accusa degli europeisti antibritannici è che con tali deroghe il Regno Unito mini dalle fondamenta l'avanzamento del processo europeo. E spinga altri paesi a fare la stessa cosa. Ma in realtà in tutto il nostro continente oggi gli elettorati anche in Italia nei sondaggi mostrano di non volere affatto una costruzione europea centralizzata e omologante, creata e amministrata dall'alto da tecnocrati e da non eletti, come sono i membri della Commissione Ue. Con i suoi no, il Regno Unito ha difeso non solo il proprio interesse nazionale, ma anche l'idea più generale di un'Unione basata sulla sussidiarietà e le differenze volontariamente difese e contrattate secondo gli interessi di ciascuno, invece di un'omologazione centralista che, come si vede nell'euroarea dal 2011 a oggi, non funziona.
È per la contraddizione tra un antico europeismo di principio e i costi asimmetrici della crisi tra diversi paesi membri, che in Italia ha preso sempre più forza il paradosso per il quale partiti che hanno firmato patti e regole europee, davanti ai propri elettorati ora le disconoscono dimenticando di averle votate. Vedremo se l'Unione Europea e l'euroarea sapranno davvero capaci di uno scatto di reni, dopo il referendum britannico. Ma se pensiamo al peso che le prossime elezioni in Spagna, Francia e Germania avranno sui rispettivi governi, è un irragionevole esercizio di ottimismo credere a cessioni di sovranità. Ergo, impariamo ad amare un po' di più i britannici verticalmente spaccati a metà, ma i cui politici almeno lo dicono chiaro, che vogliono preservare alcuni essenziali interessi nazionali.
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