La verità sulla morte di Stefano Cucchi, quella invocata per 7 anni, cercata

Mercoledì 18 Gennaio 2017
La verità sulla morte di Stefano Cucchi, quella invocata per 7 anni, cercata tra perizie e processi, il procuratore Giuseppe Pignatone e il pm Giovanni Musarò la raccontano in 6 pagine: è l'atto di accusa nei confronti dei carabinieri che hanno arrestato e tenuto in custodia Stefano, quelli che lo avrebbero picchiato provocandogli ferite letali nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009, che avrebbero mentito al processo e sarebbero stati protetti. Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Francesco Tedesco. Perché Cucchi non è morto né di fame né di epilessia e neppure perché era già debilitato.
È stato un omicidio preterintenzionale compiuto da tre carabinieri, due dei quali avrebbero partecipato all'arresto in borghese ma non compaiono nel verbale. Prima di scrivere quelle sei pagine, la procura ha fatto oltre due anni di indagini: agli atti ci sono le intercettazioni, le testimonianze e un'ennesima perizia, che tra le righe ammette che le «lesioni traumatiche alle vertebre avrebbero potuto« determinare la morte. Ma sotto accusa è finito anche chi ha mentito e coperto i responsabili del pestaggio: il maresciallo Roberto Mandolini, all'epoca comandante della stazione dei carabinieri Appia, e i carabinieri Vincenzo Nicolardi e Francesco Tedesco, hanno testimoniato al primo processo accusando, di fatto, gli agenti penitenziari che erano sul banco degli imputati. Così falso, prima contestazione ipotizzata dalla procura, si è trasformata in calunnia, le lesioni gravi in omicidio preterintenzionale. Per Mandolini e Tedesco c'è pure il falso.
L'inizio della fine per Stefano Cucchi ha un luogo e un orario: la caserma Casilina di Roma, tra le 2 e le 3 del mattino. Lì Cucchi viene portato dopo essere stato fermato, con droga in tasca. I carabinieri hanno già perquisito la casa dei suoi genitori, poi sono partite le fotosegnalazioni, per questo Stefano viene accompagnato in caserma. Di Bernardo, D'Alesandro e Tedesco vogliono obbligarlo ai rilievi dattiloscopici, lui reagisce e parte il pestaggio «Schiaffi, pugni e calci», scrivono i pm. Lo spingono, la «rovinosa caduta con un impatto al suolo in regione sacrale», sarà fatale.
Un lungo elenco di ferite, fratture ed emorragie. «Se Stefano fosse rimasto in vita - scrive il pm - sarebbero state guaribili in 180 giorni con postumi permanenti». La procura stigmatizza «la condotta omissiva dei sanitari che avevano in cura Cucchi nella struttura protetta dell'ospedale Sandro Pertini». E, soprattutto le fratture alle vertebre, che le perizie avevano attribuito a una precedente caduta. Per i magistrati lo portarono alla morte e «in particolare - scrivono - la rottura della vertebra S4 e la conseguente lesione delle radici posteriori del nervo sacrale». Un quadro clinico che «accentuava la bradicardia giunzionale con conseguente aritmia mortale».
Esulta Ilaria Cucchi: «Non so come sarà la strada che ci aspetta d'ora in avanti - ha commentato - sicuramente si parlerà finalmente della verità, ovvero di omicidio. Le fa eco l'avvocato della famiglia, Fabio Anselmo: «Siamo emozionati e soddisfatti da questa conclusione che abbiamo atteso per anni - commenta - questa è la verità che emerge: omicidio, calunnia e falso i reati contestati che danno l'idea di cosa sia successo quella sera a Stefano». Per l'avvocato Eugenio Pini, difensore di uno degli indagati, le contestazioni non potranno essere provate nel giudizio in quanto gli elementi di fatto su cui fonda non sono riscontrabili in atti e, tanto meno, nella perizia disposta dal Gip con incidente probatorio».
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