Dario Calimani, già docente a Ca’ Foscari e presidente della Comunità ebraica di Venezia: «Odio ovunque, noi ebrei sotto attacco»

Domenica 21 Gennaio 2024 di Vittorio Pierobon
Dario Calimani

VENEZIA - Non sono giorni facili per gli ebrei. Lo sa bene Dario Calimani, già professore universitario di Lingua e Letteratura inglese a Ca’ Foscari, presidente della Comunità ebraica di Venezia.

Il Giorno della Memoria (Venezia lo celebrerà oggi alle 11 con un cerimonia al Teatro La Fenice) quest’anno assume una valenza molto attuale, dopo lo sterminio commesso dai terroristi di Hamas il 7 ottobre. Riapre cicatrici mai rimarginate. «Purtroppo, noi ebrei siamo abituati a vivere sotto attacco. Non solo in Israele. La situazione sta diventando molto pesante un po’ ovunque. In Francia c’è un’islamizzazione estremista, in Inghilterra gli atti di antisemitismo sono quintuplicati, in numerose università negli Stati Uniti la situazione è esplosiva. C’è un humus di odio pazzesco, di matrice fondamentalista. Ma attenzione, non sto generalizzando, so che questo fanatismo riguarda una minoranza islamica. Però questo non è tranquillizzante». 

Mentre Calimani parla dal suo ufficio, sede della Comunità ebraica di Venezia, in campo del Ghetto passa la ronda armata che vigila giorno e notte sulla sicurezza. È un luogo simbolo, il primo quartiere ebraico sorto in Italia, l’unico che ha mantenuto la struttura immutata nei secoli. 
«A Venezia c’è un concentrato di istituzioni ebraiche come in nessun’altra città d’Europa. Questo è l’unico Ghetto rimasto integro. Ci sono sette sinagoghe, i bet ha-midrash, scuole di studio, permangono scritte sulle porte, ci sono ancora persino le cassette delle elemosine in pietra, la scritta dove sorgeva il Banco Rosso. Abbiamo un patrimonio artistico eccezionale, addobbi sacri del rotolo della Torah, non abbiamo iconografia ma oggetti religiosi di grande pregio storico. Qui si respira un’atmosfera davvero particolare. Merito anche del fatto di essere inseriti in un contesto fantastico qual è Venezia».

Ma quanti sono gli ebrei veneziani?
«Poco più di quattrocento, diciamo circa 430. Un numero esiguo proporzionale al calo demografico della città. I praticanti, cioè quelli che frequentano regolarmente le sinagoghe, sono una trentina, altrettanti, ma forse anche un po’ di più quelli che partecipano alle attività culturali laiche. La Comunità è gestita da un gruppo di persone. E anche se siamo piccoli nei numeri, siamo grandi agli occhi del mondo, abbiamo relazioni internazionali, contatti politici, visite di governanti, impegni culturali che richiedono un grande impegno». 
Pochi, ma il peso specifico e la considerazione di cui godete sono alti. 
«Partiamo da una storia importante. Venezia è stata uno dei centri maggiori dell’ebraismo nei secoli scorsi. Siamo una comunità vivace, che ha dato anche figure importanti alla vita cittadina. Ne cito uno per tutti, Amos Luzzatto. È una città che ha fatto pensiero, storia dell’ebraismo italiano». 

Ma il Ghetto da chi è abitato oggi? 
«Non certo dagli ebrei, che saranno una quindicina. Gli altri sono sparsi nei vari sestieri di Venezia e anche a Mestre. Le case qui hanno raggiunto elevati valori commerciali. Qui è il centro della vita religiosa e culturale ebraica, non più quella domestica». 

Ed è anche un centro di grande attrazione turistica.
«Ogni anno passano per il Museo circa centomila persone, molte di più sono quelle che visitano o attraversano l’area del Ghetto, che comprende i due campi e tutti gli edifici. Una sorta di museo a cielo aperto».
Il Museo è in restauro, quando sarà completato?
«È in corso un intervento di ristrutturazione gigantesco. Io forse non avrei avuto il coraggio di partire con una simile impresa, ma l’ho ereditata e conto di vederla conclusa entro il mio mandato che scadrà a metà 2025. L’impegno di spesa è notevole, ce la stiamo facendo grazie alle donazioni - e vorrei ricordare il grande impegno per la raccolta fondi di David Landau - e al sostegno del governo italiano. Prima con il ministro Franceschini e adesso con il ministro Sangiuliano, che ha garantito altri finanziamenti. Contestualmente al Museo stiamo restaurando anche le tre sinagoghe che sono all’interno. Non dimentichiamo il valore storico del cimitero ebraico del Lido, a sua volta oggetto di interventi di manutenzione. Spero che ne prendano consapevolezza anche gli ebrei, che spesso vivono passivamente la loro appartenenza. È uno sforzo di coinvolgimento che stiamo facendo assieme al rabbino Alberto Sermoneta. 

Chi gestisce il Museo?
«Abbiamo affidato l’incarico all’Opera laboratori di Firenze, che gestisce anche gli Uffizi, Brera, la Reggia di Caserta, le Scuderie del Quirinale. Stanno facendo un ottimo lavoro e ci hanno sgravato da un impegno pesante. Stiamo cercando di dare in gestione le attività, diciamo di tipo più commerciale. Così abbiamo fatto con il ristorante e con la Casa di Riposo (ormai priva di ospiti) trasformata in Casa di accoglienza. Vorremmo rivitalizzare il Ghetto, far riaprire i molti negozi chiusi».

Qual è il rapporto con la città e le istituzioni?
«Ottimo. Noi siamo veneziani a tutti gli effetti, inseriti in città da secoli. Mi sento un veneziano-ebreo, o se preferite un ebreo-veneziano. La mia famiglia è qui dal Quattrocento e forse prima. Con il sindaco e il presidente della Regione il rapporto è proficuo, di stima. Brugnaro è venuto dopo il 7 ottobre a portarci la sua solidarietà, Zaia non manca mai di venire il Giorno della Memoria. Non sono gesti formali, c’è un rapporto umano tra persone che sentono la storia del Ghetto come patrimonio veneto».

Lei è veneziano, però l’identità, l’orgoglio di essere ebreo, sono fortissimi.
«Sono nato nel ’46, dopo la Shoah, ma 12 persone della mia famiglia sono scomparse ad Auschwitz. Io me lo porto dentro. Sono stati uccisi il padre di mio padre, la madre di mio madre. L’essere ebreo ce l’ho nel sangue. Che non vuol dire essere allineato con Israele e la sua politica. Va fatta una distinzione netta tra governo israeliano e popolo ebraico».

Una distinzione che non ha fatto Hamas, con il barbaro assalto del 7 ottobre. 
«Quello che è avvenuto quel giorno è stata una barbarie indicibile. Non si possono descrivere le violenze compiute su donne e bambini. Crimini di terroristi. Ma quei crimini sono stati rimossi in fretta, è quasi caduto l’oblio, mentre l’attenzione è concentrata su ciò che accade a Gaza. Sia chiaro, io non giustifico Netanyahu e non condivido la sua politica. Ma cosa doveva fare Israele? La storia è zeppa di massacri di innocenti. Gli Stati Uniti, dopo l’attacco alle Torri Gemelle, hanno bombardato l’Afghanistan, gli Alleati - che ci hanno liberato dal nazismo, non dimentichiamolo - in un notte di bombardamenti su Dresda hanno ucciso 35 mila civili».

Ma con occhio per occhio e dente per dente, non si arriverà mai alla pace.
«Ne sono consapevole. Come sono convinto che la maggior parte dei palestinesi, non vorrebbe essere schiava di Hamas. Non credo che negli ospedali e nelle scuole fossero contenti di avere i depositi di bombe. Ma se si ribellano vengono uccisi».

Commemoriamo la Shoah, ma l’uomo non cambia?
«La Storia insegna, però l’uomo non impara. Eppure la soluzione sarebbe semplice: due Stati che potrebbero convivere e collaborare». Come avviene tra molti ebrei e palestinesi, che non avrebbero alcuna ragione per odiarsi. 
 

Ultimo aggiornamento: 08:12 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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