«Quella volta che portai Parise
ad “operare" con me»

Domenica 28 Agosto 2016 di Tommaso Tommaseo
«Quella volta che portai Parise ad “operare" con me»
Il 31 agosto di trent’anni fa moriva Goffredo Parise (1929-1986), scrittore tra i più grandi del Novecento italiano. Fernando Bandini (1931-2013), poeta, scrittore e presidente dell’Accademia Olimpica di Vicenza, in occasione di un nostro incontro, mi confidò la sua personale convinzione che, se la morte non l’avesse colto così precocemente, Parise avrebbe ottenuto il Nobel. Cesare Garboli (1928-2004), saggista e critico, scrisse che “l’assoluta originalità” di Parise lo rendeva diverso da ogni altro scrittore.
Durante i prolungati soggiorni che trascorreva nella casetta in golena del Piave, Goffredo era spesso a cena da noi nella villa di famiglia a Ponte di Piave, dove diceva di sentirsi “al caldo”. Fu in una di quelle sere, era l’estate del 1976, che, presomi da parte, mi dichiarò: “Voglio vedere come è fatto (sic) un tumore…”. Dopo avergli chiesto se non avesse desideri più ameni, gli promisi che l’avrei accontentato. E così, di lì a qualche giorno, un mattino presto passai a prenderlo e andammo insieme in ospedale a Treviso, dove la seduta operatoria prevedeva, tra l’altro, un caso di tumore del grosso intestino. In camera operatoria, lo scrittore dimostrò l’avidità di conoscere che gli era congeniale e si dovette più volte contenerlo perché, per meglio seguire l’intervento, minacciava di cadere sul campo operatorio. Parise volle poi manipolare il pezzo resecato e calzò un paio di guanti di lattice. «Come è banale (il tumore)», mi disse, e aggiunse: «si muore per una cosa così banale, assomiglia al gozzo di un pollo…». 
Di lì a pochi giorni, tornato a Roma, mi scrisse una lettera con la quale mi ringraziava per l’occasione che gli avevo dato e mi diceva di essere stato colpito, in particolare, da «quell’aura tra religiosa e astratta, che avvolge la sala operatoria e i suoi adepti… meraviglioso lavoro di cui conservo per l’attenzione e la voracità conoscitiva applicate, un ricordo estremamente intenso… molto spesso ti penso al lavoro e ti invidio con ammirazione».
L’episodio fu raccontato anche da Raffaele La Capria, nel suo libro "Caro Goffredo".
Una sera, a Salgareda, Goffredo mi confidò che da giovane avrebbe voluto fare il medico, ma poi una vocazione letteraria precoce lo aveva portato a scrivere il suo primo romanzo, "Il ragazzo morto e le comete", «e così la mia iscrizione in medicina andò in fumo…». Non vi è dubbio che avrebbe ricercato nei malanni del corpo con la stessa sapienza e curiosità con cui ha indagato i misteri dell’anima.
Parise era un uomo "difficile”, andava e veniva. E lo sapevano bene Raffaele La Capria e gli altri suoi amici, come Nico Naldini, che avevano imparato a sopportare tutte le contraddizioni del suo carattere, dove gli slanci affettivi si alternavano ad improvvise, inspiegabili chiusure.
In una sua lettera, parlandomi di una persona di Ponte che si recava in chiesa ogni mattina, mi scrisse: «Pensa, andare ogni mattina a messa, magari non pregare affatto (sarebbe un assurdo per me, illuminista e volterriano) ma star lì, nella quiete e nel raccoglimento per mezz’oretta…». Un barlume di fede? 
Io spero che il Padreterno abbia trovato la voglia e il tempo, il suo è infinito, di leggere i Sillabari. Si sarà allora reso conto delle gioie, dei dolori, degli ideali, delle chimere, delle inquietudini, degli amori, delle emozioni e delle contraddizioni che agitano, da che mondo è mondo, gli uomini, suoi figli. Parise si fece cremare e dispose che le sue ceneri trovassero sepoltura nel giardino di casa, senza cerimonia religiosa. “Come tu sai io non credo in Dio…”, mi aveva scritto. Ma il Dio che perdona avrà di certo raccolto quell’anima eretica per collocarla in quell’angolo del paradiso riservato ai sommi poeti. Se quell’angolo esiste.
*primario chirurgo emerito dell’ospedale di Treviso
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