Padova. Monsignor Bertin, vescovo di Gibuti: «Ho passato una vita intera in Africa ma il cuore è sempre a Valsanzibio»

Venerdì 15 Settembre 2023 di Nicola Benvenuti
Giorgio Bertin

VALSANZIBIO (PADOVA) - «A Valsanzibio torno sempre volentieri, l’ultima volta è stata nel mese di luglio di quest’anno, quando ho sostituito il parroco che era in ferie e per una decina di giorni sono stato nella comunità dove sono nato». A parlare così è monsignor Giorgio Bertin, frate francescano e attuale vescovo di Gibuti, il piccolo stato africano già possedimento francese d’oltre mare incastonato tra Eritrea, Etiopia e Somalia. E di quest’ultimo martoriato Paese, dove ha vissuto tra la fine degli anni 70 e i primi 90, è anche amministratore apostolico da quando è stato ucciso il vescovo monsignor Salvatore Colombo nel 1989.

Ha trovato cambiato il suo paese?
«Certamente negli anni vi è stata unimportante evoluzione: sono partito da Valsanzibio quando avevo 8 anni e ora ne ho 76. Una cosa che mi ha colpito nell’ultimo e più prolungato soggiorno è il fatto che sono sparite tutte le attività di vicinato. L’unico bar trattoria che c’è e dove si può incontrare qualcuno era chiuso. Non essendo automunito ho pensato agli anziani e a chi, forse pochi ma ce ne sono, non ha l’auto e sicuramente deve farsi aiutare persino per fare la spesa».

Ha ancora parenti a Valsanzibio?
«Ci sono alcuni cugini, mentre la mia famiglia, i miei fratelli, sono in Lombardia, nel Varesotto, dove mio papà si trasferì negli anni Cinquanta per lavoro. Dopo poco io sono entrato in seminario, dunque i veri legami li ho tenuti proprio con Valsanzibio, dove torno sempre con piacere».

Oltre che vescovo di Gibuti è anche amministratore apostolico della Diocesi di Mogadiscio, in Somalia, una delle zone più tormentate dell’Africa dove i cristiani sono ormai pochissimi...
«In effetti ho iniziato la mia vita missionaria in Somalia alla fine degli anni ‘60 e ci sono rimasto fino ai primi 90, quando è scoppiata la guerra civile che poi si è alimentata anche con il fondamentalismo islamico, tanto che attualmente esiste solo una chiesa cattolica ad Hargheysa, nel nord del Paese. È più tranquillo del sud, ma non possiamo professare ed è di fatto chiusa. A Mogadiscio la cattedrale era stata bruciata prima ed è semidistrutta, la nostra presenza come cattolici si concretizza in piccoli progetti che portiamo avanti come Caritas».

Tra il 1960 e il 1990 i rapporti tra la Somalia e Padova erano stretti...
«Assolutamente sì, negli anni immediatamente successivi allindipendenza del Paese la lingua italiana era quella ufficiale e l’Università di Padova aveva formato i primi giovani che poi erano diventati ministri della Repubblica somala. A Mogadiscio venivano a insegnare docenti padovani e giuristi come Giuseppe Bettiol e Alberto Trabucchi. Inoltre a quel tempo le facoltà di Chimica e Geologia dell’Università Nazionale Somala erano di fatto gestite da quelle omologhe di Padova, che inviavano i docenti patavini a insegnare agli studenti somali e la lingua italiana era ancora molto diffusa, soprattutto nella capitale e nei centri urbani del sud del Paese fino agli anni90. La guerra civile poi ha cancellato o quasi la presenza padovana in quelle terre e io quando vado a Mogadiscio riesco a celebrare la messa solo nelle zone militarizzate vicine all’aeroporto. In città lo posso fare con circospezione solo a casa dei pochissimi somali che sono di fede cristiano cattolica».

Lei ritorna con una certa frequenza a Padova?
«Sì, anche perché ho diverse relazioni e rapporti sia con il vescovo Claudio Cipolla che con l’Ufficio missionario diocesano, ma anche con padovani che hanno vissuto in Somalia. Alcuni sono stati miei allievi alla Scuola consolare di Mogadiscio, in cui ho insegnato. Recentemente ho appreso con piacere che il centro parrocchiale di Mandriola di Albignasego è stato intitolato ad Annalena Tonelli, volontaria uccisa in Somalia nel 2003, una testimone della santità dei nostri tempi».

Quello delle migrazioni dall’Africa è un fenomeno che impegna tutto il mondo e per il quale c’è da tempo molta sensibilità anche in Italia...
«Seguo le vicende italiane e vedo però questo fenomeno da una prospettiva un po’ diversa. Posso assicurare che in Europa arriva solo una piccola parte di migranti, perché il grosso del fenomeno è interno al continente africano ma vi sono anche molte spinte verso i Paesi arabi, con difficoltà ancora maggiori rispetto all’approdo sulle coste europee. Sicuramente questa problematica ci accompagnerà per molti anni».

Cosa c’è nel suo futuro monsignor Bertin?
«Al compimento dei 75 anni ho presentato a Papa Francesco le mie dimissioni, nel dicembre 2022. Al momento resto al mio posto e nel futuro non escludo di poter tornare anche a Valsanzibio stabilmente, mettendomi a disposizione della Diocesi di Padova per svolgere qualche servizio nella mia terra d’origine».

Ultimo aggiornamento: 16 Settembre, 12:02 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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