Vajont: alle 22.39 l'onda prevedibile
che spazzò via Longarone e 1.910 vite
(di Edoardo Pittalis)

Mercoledì 11 Settembre 2013 di Edoardo Pittalis
L'esodo dopo la tragedia
un mercoled sera, sono le 22 e 39 del 9 ottobre 1963. La gente nelle case o nei bar dei paesi davanti alla televisione che trasmette in Eurovisione da Glasgow la partita del primo turno della Coppa dei Campioni tra i Rangers e il Real Madrid. Troppo facile per la squadra di Di Stefano e Puskas che a sei minuti dalla fine conduce per sei reti a zero. Gli spettatori si sono gi stancati di urlare ad ogni rete, all’improvviso manca la luce, ma succede spesso da quando c’è la diga che fa le prove per entrare in funzione. Quel buio momentaneo è soltanto l’anticipo della grande tenebra. La notte viene rotta dal boato più bestiale che si sia mai sentito. Un fragore come se la terra si spezzasse, soffocato come un terremoto, bagnato come il diluvio universale, sordo come l’apocalisse. Un’onda che sbatte contro la faccia interna della più alta diga d’Europa tra quelle a doppia curvatura, presentata come una “creazione umana mirabile e gloria della tecnica italiana”.



Dal monte Toc si staccano 250 milioni di metri cubi di roccia e di terra, una cosa come duemila grattacieli alti cento metri. Il tutto precipita nell’invaso di 160 milioni di metri cubi d’acqua contenuti in una diga alta 266 metri a quota 730. Per far posto alla frana precipitata, l’onda si alza, supera il bordo della diga, si abbatte sulla valle sottostante e cancella ogni cosa. Spazza via interi paesi, case, chiese, scuole, stalle. Travolge gli abitati di Castellavazzo, Erto, Casso. Spiana Longarone e altri paesi ancora.



Gli edifici vanno in pezzi appena arriva l’onda che, mentre procede, si riempie di pietre, alberi, tegole, animali, uomini. I corpi sono scagliati in cima agli alberi che hanno resistito. Le traversine dei binari si arrotolano per centinaia di metri.



La diga regge, nemmeno una crepa. Forse se non ci fosse stata la diga a tenere la montagna quella sarebbe franata tutta.



Quasi duemila morti, 1910. Ma il numero esatto delle vittime non si è mai saputo, non si saprà mai. La terra si trasforma in fango duro. L’onda polverizza, risale lungo il fianco della montagna, retrocede, poi s’incanala nel fondo della valle dove scorre il Piave. Il disastro si compie in pochi minuti, forse quattro.



Gli italiani per molte ore non sanno, la prima notizia dell’agenzia Ansa è delle ore 1,46 del 10 ottobre: “Nella zona del Vajont e nell’abitato di Longarone un’enorme massa d’acqua è scesa dalla gola in si trova la diga e si è abbattuta nella valle, spazzando via decine di abitazioni e provocando morti e feriti. Le proporzioni e le cause dell’accaduto non sono ancora accertate”.



La notte è buia, sotto il cielo nero non s’accende una luce per decine di chilometri, fino a Belluno. Strade interrotte, linee telefoniche saltate, per ore non si capisce cosa sia accaduto.



L’effetto della devastazione è stato paragonato a quello di due bombe atomiche di Hiroshima. Quelle avevano cancellato la vita nel calore, qui è stata la forza dell’acqua che è entrata nelle case, ha strappato le persone dai letti, le ha spogliate, le ha disintegrate. Non è rimasto niente. Ed è il niente che gli elicotteri sorvolano all’alba del 10 ottobre. Una valle seppellita sotto la crosta dura del fango che copre case, gente, animali.



Prima dell’onda Longarone aveva 4.636 abitanti, dopo l’onda restano in piedi il municipio e 24 costruzioni. Longarone aveva fabbriche: segherie, filature, cartiere. Cancellate dalla carta geografica le frazioni di Pirago-Rivolta, Villanova-Faè, Igne, Soffranco, Dogna, Provagna, Fortogna, Roggio, Pians. E poi i centri di Erto e Casso e Castellavazzo.



Racconta don Carlo Onorin, parroco di Casso: “Avevo il Toc proprio davanti agli occhi. C’era nell’aria tutta una serie di rumori, la frana ha un rumore particolare. All’improvviso mancò la luce, il frastuono era come di mille treni che passano accanto. Poi ho visto un’enorme colonna nera che saliva dal basso e oscurò rapidamente tutto il cielo. Era un nero così nero, il nulla proprio. Come se il nulla ci stesse ingoiando”. Scrive un inviato: “Non è rimasto nulla. Non nulla per dire poca roba: proprio nulla”.



Riferisce l’agenzia Ansa delle 12,50 del 10 ottobre: “Dal Piave continuano ad emergere centinaia di corpi straziati, uomini, donne e bambini, quasi nudi, sorpresi nel sonno. La furia delle acque ha strappato loro di dosso ogni indumento. I più sono passati, inconsciamente, con tutta probabilità, dal sonno alla morte”.



A Longarone per trovare i cadaveri bisogna scavare col piccone, arrivano anche gli alpini con la pala. L’acqua ha trasformato la terra in un muro solido orizzontale. La gente si aggira tra le rovine alla ricerca di un qualsiasi ricordo, di un oggetto che restituisca la memoria di una famiglia, di una casa. Il Gazzettino dell’11 dicembre titola: “Scomparsa ogni forma di vita a Longarone e nei paesi vicini”.



Arrivano le autorità: il presidente del Consiglio Giovanni Leone, i tre ministri veneti tra i quali Rumor all’Interno. Sorvolano la zona in elicottero, quando atterrano si scatena la rabbia della gente: “Assassini…Vogliamo Giustizia”. Poi arriverà il Presidente della Repubblica Antonio Segni.



Lo sapevano tutti da anni, non c’è stata tragedia più annunciata di quella del Vajont. C’erano stati segnali di avvertimento, la montagna stava scivolando verso il bacino artificiale creato dalla diga. La sera della tragedia la strada verso la diga era stata chiusa e i carabinieri avevano ricevuto l’ordine di non far passare nessuno.



Il Vajont è un affluente di sinistra del Piave, scorre abbondante e impetuoso per 13 chilometri poi si getta nel fiume. La Sade, società per lo sfruttamento idroelettrico con capitali dell’alta finanza veneta, ha un progetto che viene da lontano, la scelta per una diga della valle dominata dal monte Toc risale al 1925. Segue un progetto aggiornato nel 1937 e la diga da 130 metri di altezza è già passata a 190; un progetto nel 1940 perché la guerra aumenta la necessità di produzione di energia. Il piano avanza e cresce nel 1943. Volpi, Cini e Gaggia hanno capacità di mediazione in ogni tempo, perfino durante la Repubblica di Salò. Stupefacente, ma tra le primissime cose della Repubblica Italiana, il 5 agosto 1946, c’è il via libera tecnico-burocratico al progetto della Sade per il Vajont. Adesso la diga è alta 202 metri e la capacità è raddoppiata rispetto al disegno originale. Dopo gli espropri, la diga può salire a 266 metri e la portata a 180 milioni di metri cubi. Parere favorevole del Consiglio superiore dei lavori pubblici, contributo dello Stato di un miliardo e mezzo di lire perché si tratta di opera di pubblica utilità ed ecco nel 1961 completata la diga più alta del mondo a doppia curvatura, larga 194 metri. È stato formato un lago che entra a far parte di un impianto con quattro centrali e cinque serbatoi che ha il cuore a Soverzene. La Sade, come tutti i produttori di energia, viene nazionalizzata nel 1962, la proprietà passa all’Enel.



L’incubo grava sulla gente della valle. Nel novembre 1960 sulla parete del Toc si era staccata una frana di 700 mila metri cubi che aveva provocato nel lago onde alte due metri. Sulle pendici del monte si era aperta una crepa a forma di “M” larga mezzo metro e lunga due chilometri. La gente ha paura, una coraggiosa giornalista bellunese, Tina Merlin, per quattro anni denuncia il pericolo, ma viene querelata dalla Sade per diffamazione, processata e assolta. La mattina dell’11 ottobre 1963 scriverà sull’Unità con disperazione : “Scrivo da un paese che non c’è più…”.



Per rappresentare la tragedia il giudice istruttore del Tribunale di Belluno, Mario Fabbri, nel 1968 apre le 458 pagine dell’ordinanza di rinvio a giudizio con una citazione biblica: “Quel giorno le acque si ruppero…”. Sarà un processo ai poteri forti e la Sade lo era. Nel 1970 all’Aquila saranno condannati per omicidio colposo un ingegnere della Sade-Enel (6 anni) e un funzionario dei Lavori Pubblici (4 anni). I giudici di primo grado accetteranno l’imprevedibilità della tragedia, non la tesi della catastrofe costruita dall’avidità e dagli errori degli uomini. Nella memoria difensiva per la Montedison (dove nel frattempo è confluita la Sade) che sostiene la tesi dell’imprevedibilità, la prima firma è quella dell’avvocato Giovanni Leone, lo stesso che da politico era atterrato nel deserto del disastro. Sarà la Cassazione nel 1971 a riconoscere l’accusa di inondazione aggravata dalla previsione dell’evento. Il tutto a due settimane dalla prescrizione. Ci sono voluti quarant’anni per dare giustizia a Longarone. La causa civile per danni si è conclusa con la condanna dell’Enel e della Montedison a pagare il primo i danni allo Stato e la seconda al Comune di Longarone. Soltanto nel 1997 è stata fissata l’entità del risarcimento.



A Longarone c’è un museo, all’ingresso pendono dal soffitto 1910 lamelle grigie, una per ogni vittima. E all’uscita 31 lamelle bianche, una per ogni bambino mai nato. La crosta di fango del Vajont ha sepolto anche trentuno donne in attesa di un figlio.



Nel museo ci sono anche le lamelle attorcigliate, perché i superstiti spesso si sentono morti dentro, attorcigliati nella memoria. E a volte vivere col senso di colpa è peggio che morire.



Il cimitero è a Fortogna e le tombe hanno tutte la stessa data: 9 ottobre 1963. Metà non recano nome perché i corpi recuperati erano irriconoscibili. Le croci sono tutte bianche, come le lapidi sull’erba. Tutti uguali sotto la terra, come quella notte sotto il fango.
Ultimo aggiornamento: 17 Settembre, 11:27 © RIPRODUZIONE RISERVATA