«Torturati, hanno perso tutto Sono fuggiti e sognano la Scandinavia»

Giovedì 24 Luglio 2014
Sono i sopravvissuti di un'autentica odissea. I rifugiati e i profughi accolti dalle strutture padovane (come da quelle di tutta Italia) arrivano da esperienze difficili anche solo da immaginare.
«Arrivano stremati, non solo fisicamente - racconta Giuseppe Riso, operatore di una delle cooperative coinvolte nell'accoglienza - I siriani scappano dalla guerra, i nigeriani dalle persecuzioni religiose, ma arrivano anche dal Mali, ancora sconvolto da un conflitto di cui non si parla più». L'Italia per loro è la tappa di un lungo e tortuoso viaggio: «Attraversano a piedi il deserto - continua Riso - Oppure chi ha soldi si affida ai «passeur». Arrivano in Libia e aspettano di imbarcarsi per l'Italia. Spesso le loro famiglie hanno venduto il bestiame, la casa, gli averi per pagare il viaggio. Investono sui giovani, sui figli primogeniti, sui giovani padri che magari un giorno potranno mandare dei soldi a casa per sostenere la loro famiglia».
L'Italia non è una meta, un sogno, ma una tappa, un momento di un viaggio che sembra non avere mai fine: «Quando i ragazzi arrivano mi raccontano le loro storie - Ho conosciuto dei siriani, giovani e giovanissimi, che mi spiegavano che hanno venduto tutto quello che avevano in patria, anche la casa, per arrivare in Libia. Arrivano in Italia perchè è la costa più vicina, ma hanno contatti in nord Europa, in Olanda, Svezia, Norvegia, è là che vogliono arrivare. Hanno visto le loro case bombardate, le famiglie vicine distrutte dalla guerra. Quando sono scappati hanno nascosto i soldi, hanno subito anche delle vere e proprie torture, una volta arrivati in Libia, ma sono riusciti a conservare il denaro per continuare il loro viaggio. Un viaggio pesante, non per i chilometri o per il tempo, ma per le difficoltà che trovano, per quello che queste persone devono affrontare».
La prima cosa che fanno i migranti, approdati in Italia, è cercare un contatto con le loro famiglie: «Arrivano con delle carte sbrindellate, hanno dei numeri da contattare. Sono parenti, amici. Si rivolgono a loro perchè sanno che hanno un contatto con le famiglie di origine. Vogliono far sapere che sono vivi».
Riso racconta come per queste persone l'Italia non sia solo un mito: «Ho avuto a che fare con dei giovani eritrei. Molti di loro sanno esprimersi in italiano. Sono rimasto molto colpito dal fatto che sanno come funzionano le cose. Sanno che il welfare italiano non è come quello del nord Europa, hanno coscienza dell'iter che devono affrontare, dall'identificazione al riconoscimento dello status di rifugiato. All'Italia preferiscono altre destinazioni, ad esempio la Scandinavia».

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci