A fine marzo chiudono le Beccherie:
Non solo crisi, ho sbagliato anch'io»

Sabato 1 Marzo 2014 di Paolo Calia
Il titolare ai tempo d'oro del ristorante con il famoso Tiramisù
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TREVISO - Tanto clamore dà fastidio. Non è in linea con la linea della riservatezza e del garbo che per 76 anni hanno distinto Le Beccherie.



Anche ieri, con i giornalisti alla porta, tutti rispediti al mittente, dentro al ristorante di Treviso forse più carico di storia, si respirava la solita aria. Camerieri elegantissimi sempre in movimento. Clima ovattato. Clienti al tavolo intenti a scandagliare il menù e la guida turistica a portata di mano.



«Non voglio parlare, c'è già stato fin troppo rumore». Carlo Campeol è alla reception. Completo scuro, camicia bianca senza cravatta, espressione tirata. Da quando si è sparsa la voce che le Beccherie sono arrivare al capolinea è sotto assedio. Una troupe della Rai, poco prima delle due di pomeriggio, tenta una sortita. Prova a intervistare l'uomo che sta per chiudere una pagina importantissima della gastronomia trevigiana e italiana, non fosse altro per l'invenzione del tiramisù. Ma Campeol di parlare ha ben poca voglia: «No, grazie». E rispedisce indietro tutti.



La voglia di sfogarsi però è grande.

«Qui non c'è niente da festeggiare: siamo di fronte a un fallimento. Chiudo perché voglio rispettare la mia firma e gli impegni presi con dipendenti e fornitori. Fino al 30 marzo sono in grado di farlo. Dopo non so. E mio padre mi ha insegnato che gli impegni si rispettano o non si va più avanti. E quindi mi fermo».



La stanno cercando in tanti.

«Mi hanno chiamato tutti: la Rai l'ha vista. Poi Mediaset, Sky. Tutti. Ma non ho niente da dire».



Quindi chiude.

«Sì, il 30 marzo. Non capisco perché si sia scatenato tutto questo circo».



Perché siete le Beccherie, un locale che a Treviso rappresenta un pezzo di storia.

«È vero, ma non si può andare avanti. Non si può continuare a lavorare, tutti i giorni, per essere sempre in difficoltà. Basta. Quando ci si rende conto che gli impegni non si possono più rispettare è meglio smettere. Almeno lo farò senza lasciare pendenze».



E di questo locale che ne sarà?

«È nostro. Intanto rimarrà chiuso».



Ma si è fatto avanti qualcuno per rilevarlo?

«Nessuno. Vedremo cosa farne. Io di certo non aprirò altri ristoranti. Magari andrò ad aiutare qualche collega».



Ma perché si è arrivati a questa situazione?

«Perché il lavoro è diminuito. Con la crisi sono venuti a mancare i pranzi e le cene aziendali, quella clientela commerciale per noi fondamentale. E non posso certo chiedere alle famiglie o ai piccoli clienti di farsi carico dei costi. Ma non do colpe a nessuno, anzi mi prendo la mia parte».



Cosa intende?

«Che la colpa va sempre divisa a metà. Va bene la crisi, ma anche io non ho saputo cambiare, adeguarmi. Ci hanno accusati di essere dei conservatori dal punto di vista gastronomico. Noi però abbiamo sempre puntato sulla tradizione. Quando ho fatto i corsi, da ragazzo, ci dicevano che un ristoratore è sempre il piatto che presenta. Evidentemente non è più così».



Questo locale così carico di storia rimarrà un ristorante o potrebbe diventare un normale negozio, magari di scarpe o abiti?

«Qui, secondo me, dovrebbe restarci sempre un ristorante. Ma vedremo».



È disposto a cederlo anche a catene tipo McDonald's o simili: cibo moderno ma lontano anni luce dalla tradizione che avete sempre portato avanti?

«Se viene McDonad's è mi offre 50mila euro al mese è un discorso. Se invece me ne offre quanto un altro ristoratore, allora ben venga il ristoratore».
Ultimo aggiornamento: 20:17 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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