Papà Miotto: «In Afghanistan una missione che non doveva iniziare»

Mercoledì 30 Gennaio 2019 di Luca Pozza
Un'immagine di Matteo Miotto in Afghanistan
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THIENE - «Da 8 anni, da quando mio figlio è tornato in Italia in una bara, sono andato in cimitero ogni giorno, ad eccezione di quando ho avuto febbre alta o mi sono trovato fuori città. E tutti i giorni mi chiedo se la morte del mio ragazzo è servita a qualcosa». A parlare è Franco Miotto, papà di Matteo, il caporalmaggiore degli alpini di Thiene morto, all'età di 24 anni, il 31 dicembre 2010 nella valle del Gulistan, durante la missione in Afghanistan, che aveva iniziato in quello stesso anno.
L'altro ieri il Governo italiano ha fatto trapelare l'intenzione di ritirare tutti i contingenti da quello Stato per farli rientrare. «Ho appreso la notizia ieri sera (lunedì, ndr.) dalla televisione - precisa il signor Miotto, che ha un altro figlio maschio che vive a Parma - e sono stato un po' sorpreso soprattutto perché mi sarei aspettato un rientro magari graduale. In realtà prima o poi doveva succedere visto che, da quanto ne so, sono 4 anni che i nostri soldati presenti in Afghanistan fanno gli istruttori, anche se comunque spesso si legge notizie di attentati».

Condivide la decisione del Governo?
«Non mi sento di rispondere, in questi anni ho sempre evitato di fare commenti sotto l'aspetto politico. Io vivo nel mio dolore e mi limito a questo: ricordo che una delle ultime cose che mi scrisse Matteo fu questa: "Papà, qui ci sparano addosso ogni giorno", tanto per dare l'idea di quanto era alta la tensione in quel periodo. In quella terribile lista di caduti mio figlio fu il 35esimo di un totale di 54».

Ma il sacrificio di Matteo e degli altri caduti è servito a qualcosa?
«Difficile dire sì o no, non sono in grado di giudicare. Forse queste missioni non sarebbero mai dovute iniziare. Ma devo anche dire che l'Italia si è fatta grande onore in quella che era stata presentata come una missione di pace, ma  in realtà è andata ben oltre».

In futuro, nei libri di storia, cosa si potrà scrivere delle missioni italiane in Afghanistan?
«Sarà il tempo a dircelo. A mio parere è stato fatto tanto, sotto molti punti di vista, a cominciare da quello umano. Però se si pensa alla gestione dei talebani, mi pare di capire che non siano cambiate le cose e che non sia stato respinto l'Isis. Di una cosa sono sicuro: se tornassimo indietro Matteo rifarebbe quanto ha fatto perchè ne era convinto».

Lei come ricorda la memoria di suo figlio?
«Personalmente lo faccio ogni ora, ogni minuto, lui è sempre con me. Dal punto di vista pubblico lo ricordiamo ogni anno, nella mattinata del 31 dicembre, in occasione dell'anniversario, nel cimitero di Thiene e nella chiesa di Maria Ausiliatrice della Conca dove celebriamo la messa. Sa qual è la cosa più straordinaria e bella?».

Quale?
«Pensavo che con il passare degli anni la commemorazione si riducesse a poche persone e invece anno dopo anno siamo sempre di più, anche per merito degli alpini che sono straordinari. Nell'ultima occasione, poche settimane fa, eravamo moltissimi, mai così tanti. E quando il sindaco ha parlato di Matteo dicendo che "E' ormai un patrimonio di Thiene", mi si è allargato il cuore, anche se mi rendo conto di essere di parte».

Anche lei ha lanciato un messaggio intenso nell'ultimo anniversario.
«Ho chiesto che Matteo venga ricordato perché il sacrificio di un soldato dimenticato è vano, quando ci si dimentica di lui. Per questo motivo io insisto cercando di dare voce a mio figlio tramite la mia voce e a quanto posso raccontare di lui».

Viene invitato nelle scuole a parlare di Matteo?
«Per la verità no, se me lo chiedessero ci andrei volentieri. Ci sono andato alcune volte, tra cui all'istituto "Gardin" di Schio dove si era diplomato e dove l’hanno onorato. Mio figlio sì era un vero "testimonial", per usare una parola molto in uso ora: quando tornava a casa si spendeva volentieri per andare nelle scuole, ovviamente in uniforme, a raccontare ai ragazzi la sua esperienza di alpino in missione. Era orgoglioso e felice di quello che faceva».

Un'ultima domanda: sente lo Stato ancora vicino?
«In parte sì. Con l'onorevole Ignazio La Russa, che quando avvenne la tragedia era Ministro della difesa, si è creata un'amicizia che prosegue ancora, lo sento regolarmente. Al Presidente della Repubblica Mattarella ho scritto una lettera e lui mi ha invitato al Quirinale a Roma per una visita, che mi ha fatto molto piacere. Per quanto riguarda le cariche militari devo dire che il generale di divisione Marcello Bellacicco, che nel 2010 era il comandante di brigata di Matteo, è presente regolarmente alla commemorazione del 31 dicembre: c'era anche poche settimane fa».
Ultimo aggiornamento: 18:11 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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