Papa Francesco rallenta la santità di Stepinac, troppe cose non tornano sul cardinale croato

Mercoledì 8 Maggio 2019 di Franca Giansoldati
Papa Francesco rallenta la santità di Stepinac, troppe cose non tornano sul cardinale croato
Città del Vaticano – Non c'è proprio pace per il beato Alojzije Stepinac (1898-1960), il cardinale croato che ha guidato la chiesa cattolica in Croazia prima sotto l'occupazione nazista e il terribile regime degli ustascia e poi sotto il comunismo, finendo lui stesso in carcere. Papa Wojtyla lo ha voluto proclamare beato e martire. Papa Francesco, invece, ne ha rallentato il percorso per la canonizzazione spiegando – lo ha fatto ieri sera durante il volo di ritorno dalla Macedonia – che la sua figura presenta ancora tanti punti oscuri da chiarire. Di fatto il cardinale croato resta una figura che divide profondamente croati e serbi e sulla quale c'è una sorta di veto da parte del patriarcato ortodosso di Serbia. «C'è una commissione che dovrà studiare ancora».

Nel 1998 Giovanni Paolo II proclamò beato il defunto arcivescovo di Zagabria. L’iter seguito fu quello del riconoscimento del martirio (non richiede  la constatazione di un miracolo). Già allora, diversi esponenti del mondo politico serbo e le autorità della Chiesa ortodossa manifestarono la loro profonda contrarietà. Nel 2013 la Congregazione per le Cause dei Santi aveva già riconosciuto un miracolo per la proclamazione a santo. Il primate della Chiesa ortodossa serba, però, sostenuto dalle autorità di Belgrado, scrisse a Papa Francesco chiedendo di soprassedere e di promuovere una commissione storica formata da serbi e da croati che però, dopo tre anni di lavoro, non ha raggiunto alcun risultato. Uno stallo. Papa Francesco ieri sera si è pronunciato, prendendo altro tempo.

Recentemente è uscito un monumentale volume storico del professore Pier Luigi Guiducci, docente di storia della Chiesa presso la Pontificia Università Lateranense di Roma nel quale inquadra storicamente la cornice in cui si sono svolti i fatti legati all'attività di Stepinac.

Il regime di Pavelić crollò nel 1945  per l’incalzare del generale Tito (1892-1980). Con l’avvento dei comunisti si verificarono una serie di avvenimenti che riguardarono aspetti repressivi nei confronti degli ex-nemici e degli oppositori e forti criticità con la Chiesa cattolica. L’arcivescovo di Zagabria, Stepinac, venne accusato di collaborazionismo e di aver sostenuto un’opposizione anti-statale al nuovo governo comunista. Per questo motivo si arrivò, alla fine, a processarlo e il presule fu condannato a sedici anni di lavori forzati,  e alla privazione dei diritti politici e civili per la durata di cinque anni. In seguito, la prigionìa venne tramutata nel domicilio coatto. Stepinac morì nel 1960 per ostruzione di alcuni tratti  dell’arteria polmonare causata da trombi mobili (alcuni sospettano anche un possibile avvelenamento).

Il professor Guiducci nel libro, attraverso fonti dirette, ha ricostuito la fede di Stepinac. Sul piano socio-politico  e ideologico respinse in modo deciso le dottrine totalitarie, prima avversò la dottrina hitleriana della razza, del sangue, della superiorità ariana. Non rivolse particolari attenzioni ai massimi dirigenti del regime. Non sostenne le pubblicazioni filo-naziste. Non volle mantenere canali di comunicazione con il rappresentante politico della Germania hitleriana a Zagabria. Avversò l’anti-semitismo.

Dai documenti disponibili risulta che Stepinac non  approvò nemmeno l’ingerenza mussoliniana sulle vicende croate, e soprattutto condannò di fatto l’occupazione italiana di territori croati. Verso Pavelić e nei confronti del  movimento ustaša la posizione dell’arcivescovo Stepinac non si configurò affatto come adesione. La stampa del tempo – spiega nel libro il professor Guiducci - manipolò vistosamente l’informazione  riguardante i rapporti Stepinac-Pavelić (facendoli sembrare ottimi), ma la documentazione storica fornisce in realtà dei dati  profondamente diversi: tanto che Pavelić cercò di far allontanare Stepinac da Zagabria perché condannò la politica razziale, le operazioni sanguinarie, i campi di concentramento, le condanne a morte senza regolari processi, gli arresti immotivati. Quando venne riaperto  un sedicente parlamento l’arcivescovo volle sedersi nel banco dei visitatori. Pur di salvare gli ortodossi l’arcivescovo evidenziò eccezioni a quanto prescriveva il codice di diritto canonico. In pratica, gli ortodossi potevano passare alla Chiesa cattolica (Pavelić li stava obbligando con propria decisione) e, a fine conflitto, potevano tornare nella Chiesa ortodossa. Tuttavia vi erano alcuni vescovi, sacerdoti e religiosi (specie francescani) che sostennero il regime ustaša e si verificarono delle realtà criminose che videro anche (a vario titolo) la presenza di persone consacrate.

Con il sopravvento dei partigiani sull’esercito croato mutò il governo locale e il presule fu al centro di indagini. In questo periodo egli  condannò in modo ufficiale le nuove direttive comuniste per i danni che, a motivo di quest’ultime, subivano le diverse iniziative della Chiesa locale (scuole cattoliche chiuse o controllate, tipografie inattive, insegnamento religioso ridotto al minimo, dottrina morale impoverita da correnti di pensiero non in sintonìa con l’orientamento cattolico).

La situazione precipitò con un primo arresto dell’arcivescovo a cui seguì un secondo arresto, un pubblico  processo, e una condanna a 16 anni di lavori forzati. In tali occasioni la linea del presule rimase integra. Egli non deviò dalle sue posizioni. E rifiutò sia di creare una Chiesa nazionale vicina al regime comunista e staccata dal Pontefice romano (come voleva Tito), sia di lasciare la Croazia per trasferirsi altrove (come aveva chiesto alla Santa Sede  il governo comunista). 
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