Caso Emanuela Orlandi, Calenda: «Serve commissione parlamentare d'inchiesta, il Vaticano deve dire cosa sapeva»

Analizzati anche i casi di Mirella Gregori e di Simonetta Cesaroni

Martedì 20 Dicembre 2022 di Franca Giansoldati
Caso Emanuela Orlandi, Calenda: «Serve commissione parlamentare d'inchiesta, il Vaticano deve dire cosa sapeva»

Prende corpo l'idea di istituire una commissione parlamentare di inchiesta per fare luce su tre cittadine italiane scomparse misteriosamente da oltre trent'anni.

Tre casi ancora avvolti da una fitta cortina di nebbia. Accanto alla sparizione di Mirella Gregori, all'uccisione di Simonetta Cesaroni spicca il caso di Manuela Orlandi, una vicenda che coinvolge il Vaticano e recentemente è stata portata sullo schermo da Netflix con la serie intitolata The Vatican Girl. «Io non solo condivido questa iniziativa, la porterò al Senato, credo che una Commissione di inchiesta nel caso di Emanuela Orlandi sia giusta, c'è un grande non detto, l'evidenza da quello che è emerso è che il Vaticano sappia molto di più di quello che dice, e c'è la necessità che uno stato sovrano, stato nel cui territorio è avvenuto il rapimento di Emanuela Orlandi si faccia sentire e non stia passivamente alla versione che il Vaticano dà di questa vicenda» ha detto il leader di Azione, Carlo Calenda, in una conferenza stampa alla Camera facendosi promotore dell'iniziativa nata sotto la spinta dell'avvocato Laura Sgrò, legale della famiglia Orlandi.

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L'Italia, secondo Calenda, è finora sembrata «sottomessa, in soggezione» ma è «una Repubblica laica che si rapporta con rispetto al Vaticano ma certamente non può considerare questa vicenda conclusa e quindi credo che sia dovere non solo nostro, dei parlamentari, di attivarsi, ma sarebbe dovere del governo farlo, da questo punto di vista scriveremo e chiederemo anche al ministro della Giustizia Nordio di intervenire».

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«Non ci si può semplicemente voltare dall'altro lato - ha continuato Calenda - perchè nel momento in cui si riceve una risposta negativa, 'non ne sappiamo nullà, del tutto poco credibile da parte della Santa Sede, semplicemente si dice che quando la Santa Sede dice una cosa stiamo tutti zitti e facciamo quello che ci dice». «Questa Repubblica non è stata fondata su questo principio - ha proseguito - e così non può essere condotta. Per tutte queste ragioni credo che si debba andare fino in fondo».

«Anche in altri casi avvenuti in passato è accaduto è che la Chiesa si sia mossa in ritardo cercando di proteggere cose che poi sono emerse, penso alla pedofilia, causando molti danni alla Chiesa stessa. Per tutte queste ragioni, l'iniziativa non può essere solo delle famiglie, deve essere istituzionale, peraltro adesso i procedimenti sono fermi nonostante l'ottimo lavoro svolto da Capaldo ma sono stati privi della collaborazione necessaria, da parte della Santa Sede questo non può andare avanti»

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La famiglia Orlandi in questi trent'anni non ha mai smesso di ricercare la verità. «Secondo me Emanuela è stata usata per creare l'oggetto di un ricatto e se il Vaticano preferisce subire le critiche dell'opinione pubblica su questa vicenda, è perchè non può dire la verità e questo fa capire che loro sanno, Francesco conosce tutta la verità, Benedetto XVI conosce tutta la verità, io ne sono convinto al 100 per cento». Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, la ragazzina vaticana scomparsa nel 1983 a Roma, interviene alla presentazione della proposta di legge per la commissione parlamentare di inchiesta sui casi di Emanuela Orlandi, Mirella Gregori e Simonetta Cesaroni, presentata da esponenti del Pd, di Azione e del M5s. Orlandi ha fatto riferimento anche all'ultimo elemento emerso, una intercettazione di un ex sodale della Banda della Magliana: «Questo ex sodale della Banda della magliana parla anche di Giovanni Paolo II in maniera molto pesante, se Giovanni Paolo II avesse avuto un minimo di responsabilità in questa vicenda, il Vaticano non lo dirà mai perchè a quel punto dovrebbero buttare via le chiavi del Colonnato».

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Secondo Pietro Orlandi tante risposte sulla fine che ha fatto sua sorella sarebbero contenute in un dossier segreto, custodito all’interno della Città del Vaticano. Già nel 2012, sotto il pontificato di Benedetto XVI, Pietro Orlandi iniziò a manifestare pubblicamente per avere risposte. Padre Federico Lombardi, allora portavoce del Vaticano, dopo avere fatto ricerche interne, uscì con una lunghissima dichiarazione in cui si diceva che il Vaticano aveva fatto veramente «tutto il possibile per contribuire alla ricerca della verità su quanto avvenuto».

E continuava: «Poiché è passato ormai un tempo considerevole dai fatti in questione (il sequestro avvenne il 22 giugno 1983, quasi trent’anni fa) e buona parte delle persone allora in posizioni di responsabilità sono scomparse, non è naturalmente possibile pensare a un riesame dettagliato degli eventi. Ciononostante è possibile – grazie ad alcune testimonianze particolarmente attendibili e ad una rilettura della documentazione disponibile - verificare nella sostanza con quali criteri e atteggiamenti i responsabili vaticani procedettero ad affrontare quella situazione».

«È giusto ricordare anzitutto che il Papa Giovanni Paolo II in persona si dimostrò particolarmente coinvolto dal tragico sequestro, tanto che intervenne diverse volte (ben otto in meno di un anno!) pubblicamente con appelli per la liberazione di Emanuela, si recò personalmente a visitare la famiglia, si interessò perché fosse garantito un posto di lavoro per il fratello Pietro. A questo impegno personale del Papa è naturale che corrispondesse l’impegno dei suoi collaboratori. Il Cardinale Agostino Casaroli, Segretario di Stato si mise a disposizione per i contatti con i rapitori con una linea telefonica particolare. Come ha attestato già in passato e attesta tuttora il cardinale Giovanni Battista Re - allora Assessore della Segreteria di Stato e oggi principale e più autorevole testimone di quel tempo -, non solo la Segreteria di Stato stessa, ma anche il Governatorato furono impegnati nel fare tutto il possibile per contribuire ad affrontare la dolorosa situazione con la necessaria collaborazione con le Autorità italiane inquirenti, a cui spettava evidentemente la competenza e la responsabilità delle indagini, essendo il sequestro avvenuto in Italia. La piena disponibilità alla collaborazione da parte delle personalità vaticane che a quel tempo occupavano posizioni di responsabilità, risulta da fatti e circostanze. Solo per fare un esempio, gli inquirenti (e soprattutto il SISDE) avevano avuto accesso al centralino vaticano per possibile ascolto di chiamate dei rapitori, e anche in seguito in alcune occasioni Autorità vaticane ricorsero alla collaborazione con Autorità italiane per smascherare ignobili forme di truffa da parte di presunti informatori.
Risponde perciò a pura verità quanto affermato con Nota Verbale della Segreteria di Stato N. 187.168, del 4 marzo 1987, in risposta vaticana alla prima richiesta formale di informazioni presentata dalla magistratura italiana inquirente in data 13 novembre 1986, quando dice che "le notizie relative al caso…erano state trasmesse a suo tempo al PM dottor Sica". Atteso che tutte le lettere e le segnalazioni pervenute in Vaticano furono prontamente girate al Dott. Domenico Sica e all’Ispettorato di P.S. presso il Vaticano, si presume che siano custodite presso i competenti uffici giudiziari italiani.
Anche nella seconda fase dell’inchiesta - anni dopo - le tre rogatorie indirizzate alle Autorità vaticane dagli inquirenti italiani (una nel 1994 e due nel 1995) trovarono risposta (Note Verbali della Segreteria di Stato N. 346.491, del 3 maggio 1994; N. 369.354, del 27 aprile 1995; N. 372.117, del 21 giugno 1995). Come domandato dagli inquirenti, il Sig. Ercole Orlandi (papà di Emanuela), il Comm. Camillo Cibin (allora Comandante della Vigilanza vaticana), il Card. Agostino Casaroli (già Segretario di Stato), S.E. Mons. Eduardo Martinez Somalo (già Sostituto della Segreteria di Stato), Mons. Giovanni Battista Re (allora Assessore della Segreteria di Stato), S.E. Mons. Dino Monduzzi (allora Prefetto della Casa Pontificia), Mons. Claudio Maria Celli (già Sotto-Segretario della Sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato), resero ai giudici del Tribunale Vaticano le loro deposizioni sulle questioni poste dagli inquirenti e la documentazione venne inviata, per il tramite dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, alle Autorità richiedenti. I relativi fascicoli esistono tuttora e continuano a essere a disposizione degli inquirenti. È anche da rilevare che all’epoca del sequestro di Emanuela, le Autorità vaticane, in spirito di vera collaborazione, concessero agli inquirenti italiani ed al SISDE l’autorizzazione a tenere sotto controllo il telefono vaticano della famiglia Orlandi e ad accedere liberamente in Vaticano per recarsi presso l’abitazione degli stessi Orlandi, senza alcuna mediazione di funzionari vaticani».

Padre Lombardi concludeva: «Non è quindi fondato accusare il Vaticano di aver ricusato la collaborazione alle Autorità italiane preposte alle indagini. Ciò dà occasione di ribadire che è prassi costante della Santa Sede di rispondere alle rogatorie internazionali, ed è ingiusto affermare il contrario.Il fatto che alle deposizioni in questione non fosse presente un magistrato italiano, ma che si fosse richiesto alla parte italiana di formulare con precisione le questioni da porre, fa parte della prassi ordinaria internazionale nella cooperazione giudiziaria e non deve quindi stupire, né tantomeno insospettire (si veda anche l’Art. 4 della Convenzione Europea di assistenza giudiziaria in materia penale, del 20 aprile 1959).
La sostanza della questione è che purtroppo non si ebbe in Vaticano alcun elemento concreto utile per la soluzione del caso da fornire agli inquirenti. A quel tempo le Autorità vaticane, in base ai messaggi ricevuti che facevano riferimento ad Ali Agca – che, come periodo, coincisero praticamente con l’istruttoria sull’attentato al Papa – condivisero l’opinione prevalente che il sequestro fosse utilizzato da una oscura organizzazione criminale per inviare messaggi od operare pressioni in rapporto alla carcerazione e agli interrogatori dell’attentatore del Papa. Non si ebbe alcun motivo per pensare ad altri possibili moventi del sequestro. L’attribuzione di conoscenza di segreti attinenti al sequestro stesso da parte di persone appartenenti alle istituzioni vaticane, senza indicare alcun nominativo, non corrisponde quindi ad alcuna informazione attendibile o fondata; a volte sembra quasi un alibi di fronte allo sconforto e alla frustrazione per il non riuscire a trovare la verità. In conclusione, alla luce delle testimonianze e degli elementi raccolti, desidero affermare con decisione i punti seguenti: Tutte le Autorità vaticane hanno collaborato con impegno e trasparenza con le Autorità italiane per affrontare la situazione del sequestro nella prima fase e, poi, anche nelle indagini successive. Non risulta che sia stato nascosto nulla, né che vi siano in Vaticano "segreti" da rivelare sul tema. Continuare ad affermarlo è del tutto ingiustificato, anche perché, lo si ribadisce ancora una volta, tutto il materiale pervenuto in Vaticano è stato consegnato, a suo tempo, al P.M. inquirente e alle Autorità di Polizia; inoltre, il SISDE, la Questura di Roma ed i Carabinieri ebbero accesso diretto alla famiglia Orlandi e alla documentazione utile alle indagini. Se le Autorità inquirenti italiane – nel quadro dell’inchiesta tuttora in corso – crederanno utile o necessario presentare nuove rogatorie alle Autorità vaticane, possono farlo, in qualunque momento, secondo la prassi abituale e troveranno, come sempre, la collaborazione appropriata».

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