Dalle guerre del Congo alla pandemia, la storia di don Sergio: «Intere zone senza strade, portavo la fede spostandomi in moto»

Martedì 23 Febbraio 2021 di Vanna Ugolini
Dalle guerre del Congo alla pandemia, la storia di don Sergio: «Intere zone senza strade, portavo la fede spostandomi in moto»

Lui sicuramente lo chiamerà disegno della Provvidenza ma c’è un filo, una connessione d’amore e di fede che lega il destino di tre persone molto care a Terni: don Ferdinando Benigni, il prete degli ultimi, il prete delle acciaierie, morto poche settimane fa, stroncato dal coronavirus, don Edmund Kaminski, morto mentre andava in bicicletta investito da un autobus dopo una caduta nel luglio dell’anno scorso e don Sergio Vandini, il prete che ama le moto.

Una sorta di passaggio di testimone per continuare a stare vicino alle persone con il sostegno della fede in questo momento così difficile.

L'arrivo nel pieno della pandemia. Don Sergio è arrivato nella parrocchia di San Matteo a marzo dello scorso anno. Con don Edmund aveva condiviso otto anni nella missione di Ntambue in Congo, quindi il suo ritorno e il suo inserimento a Terni era facilitato dalla presenza di un prete amico. Quando don 
Sergio, vent’anni fa arrivò in quella missione, nel cuore dell’Africa, era andato via da poco don Fernando, che era poi arrivato a Terni dove ha lasciato un segno importante nella comunità cittadina. «Ora qui sto bene, sto vicino alle persone e ho cominciato una nuova vita. Dopo tanti anni in Africa la vita era diventata difficile ed era giusto lasciare il posto a un prete più giovane e più in forza di me . Il mio posto adesso è qui».

Dall'Africa a Terni. Un percorso lunghissimo, quello che porta don Sergio a Terni. In parte un ritorno a casa perchè il nonno materno era di Terni, Benedetti, il barbiere di piazza Clai, emigrato dopo i bombardamenti. In parte un modo di continuare a vivere nel segno di quella chiamata che ebbe a 26 anni. «Ero in India, a cercare ispirazione: il buddhismo, lo yoga. Una sera stavo leggendo la Bibbia e il Signore mi ha chiamato: ho sentito la sua voce nel petto, un richiamo preciso, importante. Mi ha detto “cosa fai qui?, tu devi servire il Signore”». Sono tornato indietro dall’India e sono andato alla Casa del giovane di Piediluco. Lì il vescovo mi ha fatto partire una prima volta per la missione, con due sacerdoti e una suora e io, che di professione facevo l’infermiere, come aspirante sacerdote. Ho fatto lì il mio iter, sono tornato e sono diventato sacerdote. Poi sono tornato là per altri vent’anni».

Condizioni difficile per don Sergio, perchè, a un certo punto, la missione si è svuotata ed è rimasto solo lui. «Allora mi hanno mandato in un territorio a cento chilometri dalla missione, in una chiesetta sperduta, con solo una piccola capanna per dormire. Dovevo servire dodici villaggi sparsi intorno». Da lì è nata la sua grande passione per le moto. «Non potevo viaggiare in altro modo. Non c’erano strade, solo sentieri, buche e polvere da percorrere nel cuore della savana». Una missione estrema, in zone «dove la vita era una gara quotidiana per la sopravvivenza. Il pensiero era trovare da mangiare per il pasto successivo, trovare l’acqua da bere». Lì «facevo salire il catechista sulla moto e andavo per i villaggi, dicevo messa, facevo battesimi, matrimoni, stavo vicino ai malati». Il segno più bello che ha lasciato «è stata la scuola superiore. Le elementari ci sono. Mancavano le superiori, che danno qualche strumento ai ragazzi per poter trovare un lavoro e magari trasferirsi in città dove la vita è meno dura». «Sono arrivato in Italia a marzo, nel pieno della pandemia. Sono d’accordo con quello che dice Papa Francesco: questo virus ci ha insegnato che è inutile fare muri, bisogna combatterlo insieme». La prima cosa che ha fatto una volta arrivato a Terni? «Mi sono comprato una moto. Dopo vent’anni in sella nella savana non riesco a farne a meno». Così anche a Terni, come succedeva in Africa, la fede ora arriva in moto.

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