«Per bambini e ragazzi la cura post lockdown è ritrovare gli amici»

Domenica 14 Giugno 2020 di Cristiana Mapelli
«Per bambini e ragazzi la cura post lockdown è ritrovare gli amici»
PERUGIA - Quarantena e coronavirus, un momento difficile per tutti. Sulle ripercussioni che il lockdown forzato hanno avuto bambini e ragazzi, la psicologa Costanza Pannacci offre spunti per accompagnarli nella normalità.
Dottoressa Pannacci, perché ragazzi e bambini hanno sofferto tanto durante la quarantena?
«Le cause di sofferenza maggiori sono state soprattutto legate all’isolamento sociale, che nei più piccoli si è tradotto nell’impossibilità di andare a scuola ed essere quindi innaturalmente allontanati dai pari per i momenti di apprendimento e per il gioco. Molti di loro hanno assorbito la sensazione di paura condivisa dal mondo degli adulti e, in alcuni casi purtroppo, anche le tensioni familiari sul versante relazionale o le preoccupazioni su quello economico».
Come hanno reagito alla mancanza della normalità?
«L’inizio della reclusione ha coinciso per molti con la possibilità di avere a disposizione la presenza quasi illimitata dei propri genitori come mai prima. A questo però è seguita la “sindrome della capanna”; tanti genitori mi hanno raccontato di aver avuto molte difficoltà a farli uscire anche solo per una passeggiata dopo l’emergenza. Sono stati i più piccoli a soffrire maggiormente l’assenza fisica di compagni di giochi, nonni e maestre e a non riuscire a sostituire il contatto reale con le videochiamate».
I ragazzi si sono sentiti dimenticati?
«Dalle testimonianze dirette, l’impressione principale è che l’abbandono e la dimenticanza siano stati percepiti innanzitutto dal mondo adulto, le famiglie e la classe insegnanti investiti a supplire senza mediazioni il vuoto della rete sociale che si è creato di colpo, hanno sofferto molto il carico di responsabilità derivato da questa mancanza. La graduale sparizione di certezze sul futuro e l’assenza di un progetto su bambini e ragazzi ha fatto largo a un vuoto depressivo in loro solo successivamente».
C’è stato qualche risvolto positivo?
«Certo, ne è scaturita una motivazione all’apprendimento e una rivelazione dell’attaccamento al sistema scolastico nella sua valenza relazionale mai registrata prima. Incredibilmente erano i ragazzi a voler studiare e tornare a scuola».
La mancanza di amici con cui trascorrere il tempo ha portato ad un uso eccessivo dei social?
«Un problema già presente nella generazione dei millennials. Il principale rischio è quello di penalizzare il pensiero verticale - quello che va in profondità- a favore del pensiero reticolare/orizzontale del multitasking, ovvero il fare superficialmente più cose in modo simultaneo. Il lockdown e la concentrazione di tutte le forme relazionalità entro il canale unico del telefonino ha esacerbato la prigionia all’interno di questo oggetto».
Con quale pericolo?
«Il fatto che la perdita o la mancanza temporanea di esso possano sempre più essere vissuti come una potenziale perdita della propria identità».
Come aiutarli? 
«Bisognerà lavorare sulla risignificazione del tempo presente alla luce di quanto accaduto. Con i più giovani è urgente il recupero di tutte le dimensioni non virtuali della vita relazionale e superare il modello della didattica a distanza finora inteso come l’unico praticabile, incentivando anche forme alternative che includano la possibilità di incontrarsi, magari all’aria aperta».
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