Da Pong a Fortnite, l'impero dei videogame

Mercoledì 14 Dicembre 2022 di Andrea Andrei
Da Pong a Fortnite, l'impero dei videogame

E dire che all’inizio erano due stanghette bianche su sfondo nero, in due dimensioni, che si muovevamo solo in verticale. Ma esprimevano già l’essenza del divertimento, lo zero ludico assoluto: una pallina, due porte, vince chi segna un punto in più dell’avversario. Il 29 novembre di cinquant’anni fa, un’azienda californiana di nome Atari annunciò il videogioco che aprì il vaso di Pandora di quella che oggi è un’industria miliardaria. Il gioco si chiamava Pong, e altro non era se non una sorta di ping pong virtuale. Per rendersi conto di quanto l’idea fosse vincente, basti dire che il cosiddetto “coin-op”, cioè il cabinato del videogame, prima di essere messo in commercio fu testato in un bar, e dopo pochi giorni aveva già fatto il pieno di monete tanto da incepparsi. Tre anni più tardi, nel 1975, Atari fece il passo successivo, portandolo nelle case con una console dedicata che poteva essere collegata alla tv. Da quel momento in poi iniziò la vera e propria era dei videogame, che oggi è più che mai prospera: secondo Iidea, l’associazione di categoria dell’industria videoludica in Italia, nel nostro Paese 16,7 milioni di persone li utilizzano regolarmente. Un prodotto che nel corso dei decenni successivi si è talmente evoluto da mettere in discussione anche il nome comune con cui viene definito. “Videogioco” infatti tiene conto esclusivamente della sua funzione ludica, ma l’avanzamento tecnologico e la moltiplicazione delle piattaforme (dalle console al pc fino a smartphone e tablet) lo ha reso un prodotto molto più complesso e dalle potenzialità vastissime.

Perché se è vero che da una parte si è sviluppata sempre di più la modalità competitiva, che ha dato anche origine ai cosiddetti “esports” con tanto di tornei, squadre, federazioni e premi milionari, dall’altra i videogame hanno dato vita a una forma d’espressione del tutto paragonabile a quella del cinema. Il paragone non sorge solo perché l’industria videoludica oggi ha un valore economico superiore a quelle di cinema e musica messe insieme, ma perché, a differenza di un film, il flusso narrativo non è unidirezionale, dallo schermo allo spettatore, ma bidirezionale: chi sta dall’altra parte del display, grazie alla possibilità di interagire, può entrare a far parte di una storia, diventarne il protagonista.

Ecco perché oggi alcune associazioni e aziende come Sony non parlano più di videogiochi, ma di intrattenimento interattivo. Come tutti i fenomeni di massa, anche questo ha assunto nuovi significati e nuove declinazioni, non tutte positive. I social network gli si sono affiancati, sono nati gli streamer: migliaia di ragazzi, chiusi nelle loro camerette, si riprendono mentre giocano e nel frattempo interloquiscono con platee immense di spettatori da tutto il mondo. Vere e proprie comunità nelle quali molti adolescenti trovano divertimento e in alcuni casi sostegno, ma che possono provocare alienazione. In Canada è partita una class action contro Fortnite, uno “sparatutto” online che conta 350 milioni di giocatori in tutto il mondo, che secondo alcuni genitori creerebbe dipendenza «come l’eroina». Si racconta di ragazzi che smettono di mangiare e di lavarsi, di altri che passano davanti allo schermo ogni anno fino a 7.700 ore su 8.760. E a volte queste “comunità” si trasformano in cloache di razzismo, volgarità e violenza. Il caso surreale con cui ha dovuto fare i conti Sony nel 2020, all’uscita del bellissimo The Last of Us Parte II, è un esempio perfetto e inquietante: boicottato negli Usa perché la protagonista della storia, Ellie, è omosessuale. Si tratta di problemi reali, di cui anche l’industria deve farsi carico, ma che non devono spingere a demonizzare il settore. Gli esempi virtuosi sono molti, molti di più: in Italia ci sono sviluppatori di grande talento e creatività, che andrebbero sostenuti, anche a livello economico, proprio come si fa nel settore culturale. Perché l’intrattenimento interattivo è anche questo: cultura. Non solo perché è un mezzo tramite cui raccontare storie e veicolare emozioni (solo per citarne uno: in Detroit: Become Human, sviluppato da un genio che si chiama David Cage, si affrontano tematiche come l’emarginazione, la diversità, la violenza e l’amore con una maturità, una sensibilità e un grado di coinvolgimento degne di un’opera di letteratura), ma perché oggi è entrato così profondamente tra le pieghe della società da rappresentare un terreno di confronto anche su temi molto delicati, come dimostra il caso di The Last of Us. I ragazzini crescono con il sogno di rendere i videogiochi un lavoro, di creare meravigliosi altrove dove far rifugiare migliaia di persone, proprio come fanno gli scrittori. Dal giochino Pong, d’altronde, sono appunto passati cinquant’anni.

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Ultimo aggiornamento: 25 Febbraio, 10:11 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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