Algospeak, le parole si mascherano per beffare i filtri social

Espressioni allusive ed emoji vengono utilizzati per non cadere nella censura ed evitare le penalizzazioni delle piattaforme

Mercoledì 17 Maggio 2023 di Andrea Boscaro
Algospeak, le parole si mascherano per beffare i filtri social

Simbolo era il nome, nell’Antica Grecia, dell’anello spezzato in due parti così da permettere, a distanza di anni, il riconoscimento fra due persone separate dalla vita.

Da allora, i simboli sono oggetti o espressioni allusive, capaci di unire le persone a dispetto dello spazio che le allontana. Al tempo dei social, sono gli algoritmi a creare questa distanza penalizzando la visibilità di un contenuto nel momento in cui utilizza termini violenti, razzisti o anche solo delicati. Quando i giovani, nei momenti più bui del lockdown, hanno iniziato a parlare di salute mentale lo hanno fatto utilizzando l’espressione “diventare unalive” per continuare a discutere di suicidio al riparo della censura degli algoritmi: fenomeno intercettato dal Washington Post, ha suscitato, per la sua portata, un dibattito la cui rilevanza e urgenza ha travalicato il confine dei social media ed è diventato motivo di preoccupazione generale.

IL FENOMENO

Di fronte alle conversazioni attinenti al sesso - tema oggetto di grande attenzione da parte delle più note piattaforme - le sex worker, riferendosi a se stesse, usano l’espressione «contabili» e si servono dell’emoji della pannocchia (corn) al posto della più esplicita parola porn mentre il vibratore viene contrassegnato dall’icona di una melanzana piccante. Di tutt’altro genere è il significato dell’espressione Cheeto, uno snack a base di croccantini di mais al formaggio, di colore arancione, diventato il modo con cui ci si riferisce a Donald Trump. Correndo il rischio di sentirsi boomer, si può assistere su TikTok al proliferare di termini come S3ss0, H3zb0lla, persino mascara: come le precedenti, anche l’ultima espressione non si riferisce a un prodotto di bellezza, ma è uno dei termini per indicare il sesso, giri di parole che fanno riferimento a una lingua, chiamata Algospeak, usata per aggirare i filtri delle piattaforme e non cadere nelle relative penalizzazioni. Se nei mesi della pandemia, anche in Italia, molti avranno notato che la parola «vaccino» veniva scritta con le x al posto delle c o con termini allusivi, evidenti all’interno di comunità specifiche, ma capaci di mascherare la conversazione agli occhi degli algoritmi, allora risulta comprensibile che talvolta queste espressioni costituiscano perni di discussioni fra membri di comunità che hanno nelle piattaforme digitali ambienti di dibattito e luoghi di riconoscimento della propria identità. Per questo, intercettarli e comprenderli permette di fare luce su fenomeni di cui è importante avere consapevolezza, talvolta anche per affrontarne i problemi che nascondono. Fra questi fenomeni, non secondari sono quelli che rivelano nuove forme di “slaktivism” ovvero di attivismo digitale: il supporto alla causa dell’Ucraina, da quando è iniziata l’invasione russa, è stato espresso usando, su TikTok e YouTube, l’emoji del girasole per alludere agli sterminati campi coltivati di quel Paese sotto attacco. Le stesse proteste in Iran hanno potuto diffondersi grazie all’uso dei social media: non solo grazie alle VPN che hanno consentito, da quel Paese, di connettersi a TikTok nonostante il blocco, ma soprattutto grazie alla condivisione dei video realizzati dai manifestanti da parte di chi, negli altri Paesi, ne supporta la causa. In particolare, la condivisione ha luogo attraverso la realizzazione di Stitch e Duetti, formati di video originali che, integrando quelli originali, ne estendono la diffusione impedendone di fatto il blocco. In un video che ha avuto 620 mila visualizzazioni, l’avvocato iraniano-americano Elica Le Bon ha esortato i suoi follower a condividere i video delle proteste e la tiktoker Gal Lynette ha invitato i suoi 35 mila follower a realizzare Duetti con i video delle donne iraniane per continuare a diffondere le loro gesta.

LE RIVOLTE

Anche in questo caso, l’Algospeak è risultato fondamentale sia mascherando le conversazioni con l’espressione “Ir@n” sia raccogliendole, in un social network in cui l’audio è sempre presente come TikTok, attorno alla canzone “Baraye”, un brano della cantante iraniana Shervin Hajipour che è diventato la colonna sonora delle proteste, il simbolo del movimento.

I social media non sono infatti delle comunità online, sono piazze virtuali capaci di ospitare la vita delle community favorendone la nascita, consolidandone il senso di appartenenza, permettendone la gestione, ma, proprio come le piazze durante una manifestazione, elevano ostacoli così che i contenuti che ospitano non trasgrediscano nè le regole delle piattaforme stesse nè le leggi locali in cui sono attive. Osservare le modalità con le quali i nuovi movimenti, sociali o politici, provano ad eluderle non permette solo di comprendere meglio il mondo dei social media, ma consente di osservare come nascano nuovi simboli, come si tessano nuove bandiere.

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Ultimo aggiornamento: 18 Maggio, 08:15 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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